Il pensiero principale, che distingue i componenti di un’associazione criminale organizzata, come cosa nostra o la camorra, e i criminali comuni, è certamente il senso di appartenenza all’associazione stessa, connesso ad un forte senso di essere e sentirsi un “uomo d’onore”. Come specifica il prof. Girolamo Lo Verso, “abbiamo sostenuto che cosa nostra non è soltanto un’organizzazione criminale, nel senso che la sua caratteristica più specifica è il tipo di identità del soggetto mafioso: nessun mafioso si definirà mai come un criminale, ma sempre come uomo d’onore”. Si può quindi comprendere che il senso di appartenenza ad un gruppo ampio, coeso, con una forte identità sociale, spinge i membri ad identificarsi fortemente con il gruppo stesso, con la sua simbologia, con i suoi metodi violenti e con i suoi riti, che trae spesso, impropriamente, dalla religione cattolica per avere maggiore riconoscimento e credibilità. Ma per la lingua italiana, cos’è l’onore? I mafiosi possono considerarsi esseri degni sul piano morale e sociale?

Il capo dello Stato, Sergio Mattarella, a Casal Di Principe, nel marzo scorso, ricordando don Peppe Diana ha dichiarato: “La mafia è violenza ma, anzitutto, viltà. I mafiosi non hanno nessun senso dell’onore né coraggio. Si presentano forti con i deboli. Uccidono persone disarmate, organizzano attentati indiscriminati, non si fermano davanti a donne e a bambini. Si nascondono nell’oscurità”. La loro mancanza di onore prende forma e sostanza tutte le volte che, magari dopo anni di latitanza (spesso coperta da chi lo Stato dovrebbe difenderlo), qualcuno di loro viene assicurato alla giustizia, viene arrestato e interrogato.

È il caso di Matteo Messina Denaro, morto il 25 settembre 2023, capo indiscusso del mandamento di Castelvetrano e della mafia nella provincia di Trapani, ritenuto vicinissimo a Totò Riina, uomo chiave del biennio stragista 1992-1993, conoscitore di oscuri ed importanti pezzi di quella che viene definita trattativa Stato-mafia. In modo sprezzante, durante gli interrogatori riferiva che non si sarebbe mai pentito, che non era affatto un mafioso e che l’avevano preso a causa della sua malattia. Per il resto solo silenzio, nessuna parola, nessun chiarimento, nessun pentimento. Ha solo negato il suo coinvolgimento nell’omicidio del piccolo Giuseppe Di Matteo. Il 13 febbraio riferiva ai magistrati di Palermo: “Giocavo a poker e mangiavo al ristorante”.

È proprio per tutto questo che il magistrato Nino Di Matteo, ricordando la trentennale latitanza di Messina Denaro, ha riferito che la sua cattura non è stata una vittoria dello Stato ma una sconfitta, poiché ancora oggi non sappiamo cosa realmente accadde nel biennio 1992-1993, senza voler andare troppo indietro negli anni. Certo, Matteo Messina Denaro ha deciso di morire da irriducibile, si è portato dietro i segreti e i misteri nella tomba, ha continuato, ancora in vita, l’opera criminale del padre Francesco (don Ciccio), morto nel 1998, identificandosi totalmente con la realtà in cui era nato e cresciuto.

Per l’identità mafiosa l’alternativa è tra l’angoscia di essere nessuno ed una esaltazione onnipotente del proprio Sé, data dall’appartenenza alla famiglia mafiosa. Niente è più terribile del non essere considerato, dell’essere “nuddo ammiscato cu’ nente”, (nessuno mischiato con niente). E il mafioso Messina Denaro voleva essere considerato, lui che nel 2022, trovandosi a Palermo bloccato nel traffico a causa della commemorazione della strage di Capaci, aveva commentato: “Io qua, bloccato, con le quattro gomme a terra. Cioè non nel senso di bucate, ma bloccate perché sono sull’asfalto e non mi posso muovere. Per le commemorazioni di sta minchia”. Di che onore parliamo? Anton Cechov scriveva che “l’onore non si può togliere, si può solo perdere”. Matteo Messina Denaro l’aveva perso almeno da almeno più di cinquant’anni.

Vincenzo Lalomia -ilmegafono.org