La presunzione di innocenza è un principio sacrosanto che tutti dovrebbero rispettare, a maggior ragione chi racconta e informa i cittadini su vicende giudiziarie note o meno note. Prima di parlare della colpevolezza di una persona sottoposta a indagine o anche a un processo, a meno che non sia un reo confesso, bisognerebbe attendere la conclusione dell’iter che ne attesti o meno la responsabilità. Poi si può ragionare su contingenze, su questioni morali o di opportunità politica, ma sganciando qualsiasi valutazione dalle vicende giudiziarie, soprattutto se ancora in essere. Sembra scontato, ma nel nostro Paese non lo è affatto. Ed è un vizio che ha infettato anche chi storicamente faceva appello a una visione garantista. In questo, la parabola politico-giudiziaria di Berlusconi ha giocato un ruolo chiave, perché ha acceso gli animi, polarizzato il dibattito, facendo perdere i contorni della logica e della ragione.
Da un lato, un leader spregiudicato che ha usato il terreno politico e soprattutto l’esperienza di governo per sistemare la propria situazione attraverso leggi ad personam e forzature della democrazia; dall’altro, un’opposizione politica e civile che ha dato alla questione giudiziaria troppa centralità rispetto a quella politica, che era invece prioritaria. Così, è accaduto che la magistratura è diventata il luogo della speranza oppure quello della certificazione dell’opportunità o della inopportunità. È trascorso tempo e in mezzo sono passate tante cose, ma gli effetti sono ancora vivi e si mischiano a un decadimento generale che, soprattutto nel mondo dell’informazione, è sempre più evidente. È chiaro che anche in passato l’informazione e la società italiane hanno conosciuto momenti bui, nei quali la forca prevaleva sulla penna e sulla ragione, ma oggi, con l’aggiunta dei social e della caduta di ogni filtro fra cittadinanza e rappresentanza politica, la curva del degrado è indubbiamente schizzata verso l’alto.
Al punto che oggi si va oltre la presunzione di innocenza, giungendo al suo opposto, cioè alla presunzione di colpevolezza, che si costruisce addirittura a prescindere dall’esistenza di un fatto oggettivo e di un’azione degli organi inquirenti. In poche parole, se in qualche modo fa comodo pensare, politicamente o per qualsiasi altra ragione, che qualcuno sia colpevole, si decide di offrirlo come tale alla folla della pubblica opinione. Basta poco, basta che una palla di fango ti passi vicino. Non importa che ti sporchi, quel che importa è decretare che in qualche modo ne sei responsabile, anche se il diritto penale ha come principio indissolubile il fatto che la responsabilità penale è personale, non attribuibile per riflesso o parentela.
Quello che è accaduto e sta tuttora accadendo ad Aboubakar Soumahoro, fa scuola in tal senso. Il neodeputato di sinistra, scaricato anche dalla sinistra (ecco uno degli effetti dei decenni passati, di cui si scriveva poc’anzi), non è mai stato indagato. La suocera e la compagna del deputato sono indagate dalla Procura di Latina, con accuse diverse, legate alla gestione delle cooperative che si occupavano di migranti. La compagna, come ha rivelato il suo avvocato, Lorenzo Borrè, poco dopo la recente notifica di chiusura delle indagini, è indagata con l’accusa “di aver provocato un danno erariale da 13.368 euro, conseguente all’asserita violazione dell’’obbligo di controllo della dichiarazione dei redditi presentata nel 2020 dalla presidente della Karibu, e specificamente per non aver controllato che nella dichiarazione non fossero riportate fatture pagate alla Jambo Africa, onere di cui – secondo l’accusa – Liliane Murekatete era gravata, ma che la nostra linea difensiva contesta e in relazione alla quale […] è stata depositata una memoria difensiva di 11 pagine”. La quota interna gravante sulla compagna di Soumahoro, peraltro, è di circa 4.500 euro.
Il legale, inoltre, precisa che è totalmente falsa “la notizia che alla signora Murekatete sarebbero stati sequestrati conti correnti per centinaia di migliaia di euro”. Ora al di là del principio per il quale la colpevolezza o l’innocenza di Liliane Murekatete saranno giudicate dagli organi competenti e che quindi al momento non vi è alcuna ragione per credere più a una versione che all’altra, resta il fatto che Aboubakar Soumahoro non è nemmeno indagato. Né può essere ritenuto tale solo per il vincolo affettivo o familiare. Quindi, continuare a riempire le sue pagine social di insulti e di commenti che lo dipingono come criminale, sfruttatore, truffatore, artefice di un sistema fraudolento, ladro e così via, non solo è sbagliato ma è (questo sì) penalmente perseguibile. Perché la diffamazione, la calunnia non sono consentite nemmeno se ci si nasconde dietro una tastiera o un falso nome.
Non si possono far ricadere su una persona incensurata e riconosciuta come estranea ai fatti, accuse di aver mercanteggiato sulla pelle dei migranti. E sia chiaro che, nemmeno gli indagati (che presumibilmente verranno presto rinviati a giudizio) possono essere accusati di nulla, fino a quando non ci sarà una condanna definitiva al termine di un procedimento nel quale potranno difendersi e spiegare. Ora, che questo principio di buon senso possano non capirlo i frequentatori dei social, molti animati da ignoranza o da antipatia o da fanatismo politico (e anche da razzismo, visto il tenore di certi commenti), irrita ma non stupisce. Quello che invece ancora stupisce (anche se non dovrebbe, visto l’andazzo generale) e soprattutto non è accettabile, è il comportamento degli organi di informazione e di alcune firme. Continuare a parlare di “Sistema Soumahoro”, continuare a tirare in ballo come responsabile diretto Aboubakar, costruendo titoli vergognosi e fuorvianti, scrivendo porcherie piene di astio e ricostruzioni faziose, con l’aggiunta di qualche epiteto razzista (in spregio alla deontologia giornalistica, che vale anche se sei avvocato…), è non solo squallido ma contrario alle regole.
E sarebbe bene che l’ordine dei giornalisti iniziasse a mettere in pratica i principi che finora affida solo alle teorie di corsi di formazione evidentemente inutili e intrisi di ipocrisia. Perché lasciare andare le parole, trasformare le antipatie in pregiudizi, soprattutto contravvenire all’etica che dovrebbe animare qualsiasi narrazione giornalistica, significa offrire l’immagine sempre più incrostata di un giornalismo che più che morto, come sostengono in tanti, è ormai decomposto. Con tutte le conseguenze che ciò comporta, non solo in termini di credibilità, ma anche di rispetto della verità oltre che dell’onorabilità delle persone, che è o almeno dovrebbe essere prioritario. Se il giornalismo diventa un cannone per sparare nell’agone pubblico una poltiglia di fango e odio, allora poi non si lamenti se quello stesso odio gli viene restituito. E se l’informazione italiana viene considerata sempre più un cagnolino al guinzaglio di questo o di quel precipuo interesse, sia esso politico o economico. O persino “razziale”.
Massimiliano Perna -ilmegafono.org
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