È una storia assurda e molto triste quella di Gianluca Cimminiello, il giovane tatuatore di Casavatore, in provincia di Napoli, ucciso a colpi di pistola il 2 febbraio del 2010. La sfortuna e l’ingiustizia sono il filo conduttore dell’intera triste vicenda. Ormai oltre 13 anni fa, infatti, Gianluca ha perso la vita per colpa di una foto, di un fotomontaggio che lo ritraeva in compagnia del calciatore Ezequiel Lavezzi, che allora militava nel Napoli, e che il trentaduenne aveva condiviso ingenuamente sul proprio account di un famoso social network. Questa foto aveva attirato l’attenzione malata e criminale di un suo collega che, invidioso, “per dargli una lezione” aveva chiesto un favore a degli amici affiliati al clan Amato-Pagano. I camorristi si erano così recati nello studio di Gianluca con l’intenzione di minacciarlo e picchiarlo, non immaginandosi che lui, allenatore di kickboxing, avrebbe avuto la meglio nel difendersi.
Uno smacco troppo difficile da mandar giù per delle teste calde abituate a considerarsi invincibili. Così, pochi giorni dopo, i malviventi tornarono allo studio, stavolta armati, e lo uccisero. Incredibile! Ucciso per una foto, falsa, ucciso per non essersi lasciato picchiare, ucciso a causa dei percorsi mentali distorti e criminosi dei camorristi e dei loro amici. Come se ciò non bastasse, Gianluca è stato ucciso una seconda volta dal sistema giudiziario italiano, che talvolta presenta delle pecche enormi. Così, nonostante dalle indagini successive all’omicidio sia risultata l’assoluta estraneità del giovane Cimminiello all’ambiente malavitoso e sia dunque stato appurato in concreto il suo status di vittima innocente di camorra, ai suoi familiari è stata preclusa la possibilità di richiederlo ufficialmente e di accedere al riconoscimento previsto dalla legge del 1990 per i parenti delle persone uccise senza colpa dalle mafie.
A precludere questa possibilità a Gianluca e ai suoi cari, sarebbero delle parentele “scomode”. Dalle indagini è infatti emerso che il papà di Gianluca, anche lui non più in vita, con il quale la madre aveva rotto i rapporti già nel lontano 1985 dopo averlo denunciato per violenze, aveva 4 parenti con precedenti penali. Parenti, è bene precisarlo, sconosciuti sia alla donna che ai suoi figli. “Mia madre – ha dichiarato la sorella di Gianluca, Susy – ebbe coraggio a denunciare nostro padre, lo fece per tutelare noi figli e da allora ha chiuso ogni rapporto con lui e con la sua famiglia”. “È assurdo- ha continuato la donna – che, dopo quasi quarant’anni, proprio per questo gesto coraggioso lo Stato ci debba negare il riconoscimento di vittime innocenti della camorra”. “Così – ha concluso – ci fanno sentire vittime non una, ma tre volte”.
Contro questa iniqua decisione la famiglia di Gianluca Cimminiello ha citato in giudizio il Viminale. Nell’attesa che i giudici si esprimano è opportuno ricordare che, è vero, la fortuna è cieca ma la giustizia no, dalla giustizia ci si aspetta che sia vigile e lungimirante. Purtroppo nessuna sentenza potrà mai restituire la vita a questo giovane innocente e sfortunato, ma la giustizia può e deve essergli concessa. È una questione di civiltà.
Anna Serrapelle-ilMegafono.org
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