“Zan, Zendeghi, Azadi” – “Donna, Vita, Libertà”. Uno slogan, ma è più giusto chiamarlo un grido di libertà, che dalle piazze e dalle strade dell’Iran arriva e rimbomba nelle città di tutto il mondo con una risonanza globale che scuote le coscienze e chiede di essere ascoltato e fatto proprio. Quel grido ha percorso una strada lunghissima, ricca di trappole e di rischi, di paure. Le donne iraniane conoscono ogni metro di quella strada perché, ad ogni metro, hanno conquistato qualcosa per se stesse e per la loro storia pagando un prezzo altissimo. Era il mese di marzo del 1979 quando, a Teheran, le donne manifestarono per la prima volta contro la “Repubblica islamica”: chiedevano libertà perché “la libertà non è né occidentale né orientale, è universale”. Molte di quelle donne avevano creduto e combattuto per quella rivoluzione khomeinista che prometteva un Iran nuovo, diverso e migliore di quello che dal 1941 era governato dallo Scià Mohammad Reza Pahlavi.
Un regno, quello dello Scià, che da una parte aveva sì avviato un programma di riforme che doveva assicurare un’istruzione gratuita, un sistema sanitario e il diritto di voto alle donne, ma dall’altra parte si reggeva su un sistema poliziesco e di repressione. Chi ricorda i giorni di quella rivoluzione non dimentica che essa era guidata non solo dalla componente religiosa e islamista, ma anche dalle tante e diverse componenti laiche, socialiste e comuniste. Eppure, l’Occidente scelse di concedere spazio e attenzione solo alla componente religiosa: erano i tempi in cui a Khomeini, esiliato a Parigi, i principali media occidentali come la BBC dedicavano ampi spazi e interviste. Quando Khomeini, dopo anni di esilio in Europa dalla Turchia a Parigi, arrivò all’aeroporto di Teheran, venne accolto come un eroe. Ad attenderlo c’erano, certo, anche le donne che in quella rivoluzione riponevano speranze. Passarono poche settimane da quell’accoglienza trionfale, quando Khomeini decise di dare forma e sostanza al nocciolo della sua idea di “Stato di Dio”: il primo passo fu la cacciata dalle Università e dagli uffici statali di tutte le donne che non indossavano il velo.
E il velo diventò il simbolo della sua idea di Stato e di vita e, al tempo stesso, il primo simbolo della privazione di ogni diritto civile per le donne e del controllo su di loro, con quella “Legge di Dio” dove l’adulterio e l’omosessualità erano e sono puniti con la lapidazione. È sempre nel 1979 che nascono le Guardie rivoluzionarie, i “pasdaran”, che oggi controllano gran parte dell’economia e del mondo militare. Negli anni ‘80 il regime ha inasprito la repressione e, dopo le donne, era arrivato il momento del carcere e della soppressione di tutti i movimenti comunisti e dei suoi militanti. L’attuale presidente, Ebrahim Raisi, è stato il principale artefice di questa repressione e di questi omicidi. Eppure, questo non gli ha impedito di parlare all’Assemblea Generale delle Nazioni Unite nel settembre del 2022, dove si è presentato affermando che “la Repubblica islamica dell’Iran si prefigge di combattere le ingiustizie in tutte le sue forme: contro l’umanità, contro la spiritualità, contro Dio Onnipotente e contro i popoli del mondo. Ovunque esse avvengano”.
Nonostante la feroce repressione messa in atto dal regime, le donne iraniane non hanno mai piegato la testa e, se un rilievo deve essere fatto, questo si può rivolgere all’incapacità e al ritardo con cui gli uomini, intesi come maschi, hanno acquisito la consapevolezza e la coscienza che le lotte e le rivendicazioni delle donne iraniane dovevano essere appoggiate e condivise fin dal primo momento. Quelle donne che già negli anni ‘90 si organizzavano per chiedere riforme a leggi degne del peggior Medioevo. Nel novembre del 2009, Simin Behbahani, poetessa e attivista per i diritti delle donne, ritirerà il riconoscimento come “donna dell’anno” a nome delle donne iraniane, per aver dato vita e sostegno alla campagna “Un milione di firme per l’eguaglianza di fronte alla legge”, una campagna volta ad abrogare le leggi e gli articoli del codice civile che discriminano le donne in Iran.
La strada delle donne iraniane continua e, un metro dopo l’altro, arriva alla ciocca di capelli che Mahsa Amini decide di non nascondere più. Mahsa aveva solo 22 anni e ha pagato con la vita quel gesto di ribellione e di coraggio, di dignità. È la sua morte, anzi il suo assassinio per mano della “Polizia Morale” iraniana, la goccia che diventa fiume e si riversa sulle strade e nelle piazze del Paese da oltre quattro mesi, sfidando tutto quello che è possibile sfidare e anche di più. La risposta del regime degli Ayatollah è violenta, brutale. Nelle piazze si spara contro chi manifesta, le vittime sono centinaia e ai cadaveri nelle piazze si aggiungono le condanne a morte dopo processi farsa. La pena di morte è il mezzo di repressione politica con cui il regime prova a soffocare quel grido di libertà che sale sempre più alto e che, finalmente, vede anche molti uomini schierarsi apertamente.
Altissima la presenza dei giovani: le scuole e le università sono i luoghi dove i giovani organizzano e lanciano il loro guanto di sfida al regime, consapevoli dei rischi mortali cui vanno incontro, ma anche convinti che tornare indietro sia impossibile. Questo coraggio e questa dignità meritano l’appoggio e la solidarietà di tutti. Ecco perché quel grido “Donna, Vita, Libertà” supera il confine dello slogan e diventa qualcosa di più. Questa ondata rivoluzionaria, dopo oltre quarant’anni, pone la società contemporanea di fronte a scelte che non possono essere rinviate, ma la comunità internazionale non sembra trovare la forza, e la volontà, di compiere quelle scelte. Nel dicembre del 2022, l’Onu ha approvato una mozione con cui espelle l’Iran dalla Commissione per i diritti delle donne delle Nazioni Unite, ma resta da chiedersi come sia stato possibile che ne fosse membro dall’aprile 2021.
Gli appelli a fermare la violenza, la minaccia di sanzioni non sortiscono alcun effetto anche perché il regime iraniano identifica proprio “gli stranieri” come la matrice responsabile di questa situazione. Allora forse sono altre le strade da percorrere. Shirin ʿEbādi, premio Nobel per la Pace nel 2003, è un’avvocatessa iraniana che si è sempre battuta per la democrazia e i diritti umani e, dopo infiniti arresti, è costretta a vivere in esilio dal 2009: mentre le diplomazie europee per ora si limitano a convocare gli ambasciatori iraniani per chiedere la cessazione delle violenze lei ne chiede l’espulsione. Ogni guerra, così come ogni crisi interna in qualunque Paese, ripropone la domanda sull’importanza dei negoziati, ma la domanda successiva è su quali basi negoziare e con quali argomenti. Dove falliscono le diplomazie, per incapacità o per volontà politica, può riuscire la comunità. Mantenere vivo il focus su quanto sta succedendo in Iran è fondamentale, e il compito spetta a tutti: il mondo dell’informazione, gli intellettuali, la parte migliore della politica, il mondo del lavoro, i cittadini tutti.
Se questo non avviene, o avviene con ritardo, la lotta delle donne iraniane non basterà perché nessun regime cade da solo. C’è una coscienza civile che in tante parti della nostra società si è assopita, avvolta dall’indifferenza. Le donne iraniane, i giovani che sfidano la morte nelle piazze di Teheran, di Isfahan e delle città principali dell’Iran hanno lanciato un grido non solo agli Ayatollah ma a tutti noi. È lo stesso grido di rabbia, dolore e libertà che, prima di loro, altre donne hanno lanciato: da Plaza de Mayo a Kobane, e prima ancora da ogni posto dove le donne non hanno mai avuto il diritto di gridare. Quella ciocca di capelli che Mahsa Amini decideva di non nascondere più è lì, su quella strada dove le donne camminano ogni giorno e dove, un metro alla volta, conquistano qualcosa di se stesse e della loro storia. Raccogliamola quella ciocca di capelli, sentiamola nostra. “Zan, Zendeghi, Azadi”.
Maurizio Anelli -ilmegafono.org
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