Sostenibilità, futuro del Pianeta, difesa del territorio, transizione ecologica: parole e concetti che hanno attraversato il dibattito negli ultimi anni, soprattutto davanti agli allarmi lanciati ripetutamente dagli studiosi. Allarmi che hanno trovato una loro forza politica nelle rivendicazioni e nelle proteste di attivisti in tutto il mondo, in simboli che hanno segnato un’epoca. Da più parti si ripete che il pianeta non ha scelta, non hanno scelta i singoli paesi e nemmeno le realtà locali. O si cambia passo tutti insieme e si investe su un futuro sostenibile o si rischia di uccidere il futuro delle prossime generazioni. Nonostante questa dimensione di urgenza, però, si finisce sempre per trovare il modo per un rinvio, per la riproposizione di vecchi schemi, di deroghe, di deviazioni pericolose. L’Italia, in questo, è un terreno di osservazione esemplare. La guerra russo-ucraina, con il suo violento impatto, economico e ambientale, ha immediatamente messo da parte le buone intenzioni, più potenziali che concrete, circa il cambiamento in ottica green.
Se già prima del conflitto, il ministro della Transizione Ecologica, Cingolani, mostrava posizioni molto discutibili e non compatibili con il nome altisonante del suo ministero, dopo lo scoppio della guerra, la ragion di Stato, l’economia, la crisi del gas e la necessità di una autonomia energetica dalla Russia hanno monopolizzato il dibattito, emarginando qualsiasi posizione ecologista. Poco importa se è proprio il ritardo nel ridimensionamento del fossile e nel conseguente sviluppo di energie alternative da fonti rinnovabili a mettere a nudo la debolezza del sistema energetico italiano. Inutile spiegare che attuare un piano di trivellazioni per l’estrazione di gas, ad esempio, non ridurrebbe l’enorme dipendenza dal gas straniero. Altrettanto inutile provare a ricordare che il solo periodo in cui la percentuale di dipendenza energetica dall’estero si è ridotta in modo importante è stato quello nel quale si è scelto di incentivare l’energia rinnovabile (fino a quando il governo Renzi non ha deciso di fermare tutto).
Non serve, perché la parola d’ordine è energia fossile. Centrali a carbone da rimettere in funzione, trivellazioni per recuperare vanamente un po’ di gas. Insomma, la guerra è diventata il grimaldello per scardinare qualsiasi resistenza “ambientalista”, con la bandiera dell’emergenza da sventolare con forza, con l’aiuto di media compiacenti, per convincere l’opinione pubblica che la sola strada è quella. La strategia la conosciamo molto bene, è stata replicata sistematicamente nella storia industriale di questo Paese. C’è sempre una ragione superiore e urgente per non occuparsi della salute dei territori e dei cittadini che li popolano. Una volta è l’occupazione, la fame, il lavoro, un’altra volta è il rischio di un inverno al freddo, un’altra ancora l’emergenza rifiuti e il rischio igienico-sanitario, e via dicendo. E questo vale anche per l’industria turistica, quella che deturpa o minaccia luoghi intrisi di bellezza e di storia in nome del profitto, del lavoro, dell’occupazione.
È sempre singolare constatare poi come la soluzione più rapida da prospettare sia sempre quella che, di fatto, è complice del problema che si intende risolvere. Si risponde agli effetti economici della guerra con soluzioni vecchie, ossia le fonti fossili (con annessi gli interessi politico-economici collegati), che in qualche modo quel conflitto lo hanno nutrito e generato. Si risponde all’emergenza spazzatura a Roma, non correggendo i disastri di anni segnati da gestioni sconsiderate e dall’assenza di politiche serie sulla differenziata, ma dando la possibilità (in deroga al piano regionale rifiuti che non lo prevedeva) di realizzare un termovalorizzatore, peraltro di vecchia generazione, per bruciare i rifiuti, con tutto quel che comporta in termini di emissioni e di ulteriori rischi per la salute dei cittadini.
Insomma, siamo fermi sempre al palo. L’incapacità ormai endemica della nostra classe dirigente di avere una visione a lungo termine, porta ad affrontare i problemi sempre con logiche emergenziali, riproponendo soluzioni sbrigative (e nocive) e tremendamente vecchie. Come avviene anche con il nucleare, con i suoi sostenitori che cercano di convincerci della sicurezza delle centrali di nuova generazione, ma poi fanno scena muta sulle scorie, sulla loro gestione, soprattutto in un Paese inquinato dalle mafie, sullo stoccaggio e sull’impossibilità di garantire il “rischio zero”. Questa maniera di ragionare, di affrontare le questioni lo riscontriamo in tutti gli ambiti, compresi quelli che coinvolgono i diritti delle persone.
Lottare contro tutto questo, in un Paese come l’Italia, con i suoi sistemi radicati, fatti di complicità tacite e alleanze oscure e trasversali, richiede un’enorme pazienza, una forza e una costanza che solo una informazione corretta e indipendente, la condivisione delle competenze e una solidarietà intergenerazionale possono assicurare. Ecco perché i movimenti e le voci a sostegno dell’ambiente devono crescere ancora e devono trovare una forma politica (non necessariamente partitica) unita e autonoma, che possa inserirsi con prepotenza in un dibattito terribilmente massificato, mediaticamente blindato e votato all’emergenza, nel quale chi ha un’opinione diversa, per avere spazio e ascolto, deve prima di tutto difendersi dal fuoco incrociato. Non un bel segnale di democrazia, certo, ma questa è l’Italia e bisogna farci i conti. E, soprattutto, farsi trovare preparati.
Massimiliano Perna -ilmegafono.org
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