27 marzo 1964. Con una Pastorale dal titolo “Il Vero volto della Sicilia”, il cardinale di Palermo, Ernesto Ruffini, sentenziava che “la mafia non esiste”. Esistevano, secondo l’alto prelato, tre punti fondamentali che, invece, contribuivano a denigrare l’isola: un certo tipo di giornalismo che aveva nel quotidiano “L’Ora” il principale riferimento, il romanzo storico “Il Gattopardo” di Giuseppe Tomasi di Lampedusa e l’opera pedagogica e sociologica di Danilo Dolci. La Chiesa cattolica, con Ruffini, si poneva in una posizione a dir poco “imbarazzante”. Appena nove anni dopo, nel 1973, il celebre poeta Ignazio Buttitta scriveva “Mafia e parrini”, testo musicato da Otello Profazio e portato al successo da Rosa Balistreri. “La mafia ed i parrini si dettiru la manu: poviru cittadinu, poviru paisanu! (…) La mafia e li parrini eterni sancisuca! (…) Unu jsa la cruci, l’autru punta e spara, unu minazza lu ‘nfernu, l’autru la lupara”. (traduzione: La mafia e i preti si diedero la mano: poveri cittadini, povero paesano! (…) Mafia e preti: eterne sanguisughe! (…) Uno alza la croce, l’altro prende la mira e spara, uno minaccia l’inferno e l’altro la lupara).

In questo testo si denuncia, se non una vera e propria collaborazione, quantomeno una silente connivenza nel “gestire e manovrare” la vita del popolo, quella pubblica e quella privata. Se si chiedesse agli italiani se essere mafioso sia compatibile con la cristianità, se mafia, ‘ndrangheta, camorra, sacra corona unita siano conciliabili con la Chiesa, ci si meraviglierebbe della domanda e si risponderebbe senza dubbio di no. Se la stessa domanda si formulasse ai mafiosi, essi risponderebbero certamente di sì, ritenendo non esserci alcuna contraddizione tra credere in Dio e nella Chiesa e aderire alle organizzazioni criminali.

Senza andare all’uso delle immaginette sacre macchiate di sangue dei nuovi iniziati o agli inchini delle statue sotto i balconi dei mafiosi e camorristi, durante le processioni, è evidente che il denaro proveniente dai mafiosi nel sovvenzionare le feste patronali e le tasche di certi “religiosi”, la loro potenza economica, hanno fatto gola ad un certo tipo di Chiesa e che, per molto tempo, il silenzio del mondo cattolico nei confronti della mafia è stato increscioso, spiacevole, doloroso. La mafia si riteneva legittimata, se non addirittura benedetta, dagli uomini di chiesa. Ne parlava già, nei primi anni del Novecento, Mons. Angelo Ficarra, allora un semplice prete di Canicattì, divenuto nel tempo Vescovo di Patti e protagonista dell’opera di Leonardo Sciascia “Dalle parti degli infedeli”. Ficarra pubblicò una quarantina di articoli sul quindicinale “Il Lavoratore”, titolando quei pezzi “Meditazioni vagabonde”. In quegli articoli, Ficarra, allora vicario cooperatore dell’arciprete Licata di Ribera, condannava con forza le modalità paganeggianti di molte feste siciliane; lo strapotere delle confraternite laicali, “vero flagello di certi paesi e di certe chiese”, interessate soltanto a conservare privilegi e prebende.

Egli parlava di “materialismo religioso” e di “materializzazione dell’idea religiosa” e sosteneva la tesi di un popolo siciliano tutt’altro che cristiano. “La vita religiosa del nostro popolo – aggiungeva – è ammalata, profondamente inquinata”. Grazie al libro di Sciascia sappiamo la fine che fece Ficarra, allontanato dalla diocesi di Patti forzatamente e messo a riposo nella sua Canicattì. Come può un mafioso dichiararsi cattolico osservante? “Una volta posi questa domanda – scriveva Pietro Grasso su Reset nel 2014 – a un collaboratore di giustizia che aveva confessato quasi un centinaio di omicidi. Mi rispose seraficamente: «Signor giudice, le giuro sulla testa dei miei figli: non ho mai ucciso nessuno per un mio interesse personale, sono stato sempre comandato». Giustificazioni di questo tipo, sono certo, saranno ben analizzate per comprendere come un giuramento di appartenenza possa trasformare un uomo in un automa privo di qualsiasi principio etico, in un soldato in perenne guerra contro una enorme quantità di nemici”.

“Non v’è dubbio – continua Grasso –  che il riconoscimento sociale di volgari assassini come persone di rispetto, di giustizia, d’onore, si sia basato, in passato, sulla legittimazione concessa da una Chiesa che, rimasta in silenzio, ha rinunciato a denunciare la violenza della mafia, anche se l’insegnamento di Cristo ripudia la violenza. Perché la Chiesa rinunciò per lunghi decenni alla sua secolare funzione di indirizzo etico, celebrando per i mafiosi e le loro famiglie battesimi, cresime, matrimoni e funerali in pompa magna? Perché non ha usato nei loro confronti l’esecrazione aperta, la scomunica, l’emarginazione dalla comunità dei fedeli, nonostante calpestino quotidianamente il diritto alla vita?”.

Ce lo ha spiegato sempre Ficarra: per il denaro, per le prebende, perché alcuni sacerdoti appartenevano, addirittura, a famiglie di mafia. Giovanni e Salvatore Vizzini, fratelli del boss mafioso Calogero, furono entrambi sacerdoti. A proposito del sacerdote Salvatore, in paese mormoravano che fosse la mente del fratello Calogero. Un altro religioso è stato lui stesso un mafioso. Si chiamava Stefano Castronovo, fra Giacinto per l’ordine dei Padri Riformati. Era alto e bello, aitante e tenebroso. Aveva i capelli argentati, gli occhi ammalianti, il volto da attore. Ma intorno al convento palermitano di Santa Maria di Gesù, dove trascorreva i suoi giorni di uomo consacrato al Signore, gli avevano affibbiato un soprannome che diceva tutto, “frate lupara”, anche se insieme alla corona del Rosario, nel cassetto della sua cella, nascondeva non un fucile ma una pistola calibro 38, sempre carica e con il colpo in canna. “La mia passione è il tiro a segno”, diceva per spegnere ogni maldicenza. 

Lo uccisero nel monastero il 6 settembre del 1980. Un’imboscata in perfetto stile mafioso, un delitto anomalo che sconvolse la borgata ai piedi del Monte Grifone, tra le campagne di Ciaculli e Belmonte Chiavelli, da sempre in mano alla famiglia Bontade, vecchia mafia, proprio nei giorni in cui preparavano la grande guerra con i corleonesi. Bisognerà arrivare alle stragi, alla mattanza di Palermo, all’omicidio del giudice ragazzino, all’omicidio di don Pino Puglisi, perché la Chiesa si risvegliasse dal suo torpore, affinché un Papa scomunicasse, alla Valle dei Templi di Agrigento, i mafiosi. Ci vorranno tanti anni per arrivare alla beatificazione di don Puglisi e del giudice Rosario Livatino. Certo, la Chiesa cattolica e il Vaticano dovrebbero dare tante altre spiegazioni su come viene gestita la “banca vaticana”, sui presunti legami con la banda della Magliana, sul caso di Emanuela Orlandi e su altre oscure vicende. Ma queste sono altre storie. Forse.

Vincenzo Lalomia -ilmegafono.org