Le parole di Peppino Impastato sulla bellezza, sulla necessità di insegnarla alla gente per combattere la rassegnazione al brutto, la paura e l’omertà, ci fanno bene. In qualsiasi periodo le leggiamo o le ascoltiamo, non solo nei giorni in cui le vediamo spuntare a intimarci di non dimenticare quel 9 maggio 1978 che macchiò tragicamente la storia italiana. Le parole di Peppino oggi sono amate e molto citate, perché esprimono al meglio il nostro umano desiderio di vedere cambiare le cose, di vedere riconosciuto il nostro diritto alla bellezza. Di fronte ad esse, però, dovremmo provare anche un po’ di imbarazzo, perché per almeno vent’anni le abbiamo ignorate dentro a un silenzio che puzzava di ingiustizia. E perché in troppi ancora oggi si fermano a leggerle, salvo poi continuare ad accettare il brutto.

Forse però è proprio grazie a quell’imbarazzo che è possibile accorgersi di come le cose siano cambiate e, al netto di certe negatività, siano cambiate in meglio. Questo è un punto di partenza fondamentale per trovare la spinta necessaria a non fermarsi, non rassegnarsi, a correggere magari alcuni aspetti e andare avanti. Gli anni di Peppino erano quelli terribili della strategia aggressiva di cosa nostra, anni nei quali la bellezza i mafiosi se la stavano divorando insieme ai loro complici di Stato, quelli del calcestruzzo e delle grandi opere, quelli che si infilavano in un appalto e con mezzo sguardo tiravano giù una montagna o la ricoprivano di cemento. L’antimafia era roba di qualche magistrato, di pochi poliziotti e carabinieri e di qualche giornalista rompiscatole da far sparire in fretta, magari servendosi di uomini in divisa o di altri giornalisti e giornali per depistare e confondere le acque.

L’antimafia era molto diversa, lontana dai primordi delle lotte bracciantili per il diritto alla terra e ancor più lontana dall’epoca futura dei maxiprocessi, delle lenzuola bianche e delle fiaccolate. Oggi, quel mondo è cambiato. Oggi la mafia sa che la strategia del terrore comporta una reazione dura della gente e di una parte dello Stato. E sa che, quando lo Stato fa il proprio dovere, cominciano i controlli, gli arresti, le condanne. Il consenso si indebolisce, perché la gente comincia ad avere meno paura, a denunciare.

Oggi, rispetto a quel 1978, l’antimafia ha più esperienza e molti più “soldati civili” al suo interno. Ha fatto educazione, ha fornito esempi, ha attraversato le scuole di tutta Italia, ha reso noti nomi che prima erano poco conosciuti, ha democraticizzato il tema, lo ha reso popolare, vivo, futuribile. Questo è un elemento positivo che non dobbiamo mai dimenticare, nemmeno quando ci troviamo dinnanzi agli aspetti negativi e ai momenti difficili. Che ci sono e sui quali bisogna ragionare.  È proprio dai momenti negativi, bui che bisogna trarre il meglio.

Dopo le stragi del 1992, quando tutto quel sangue, quella prova di forza violenta ci avrebbe potuto mettere in ginocchio, abbiamo invece reagito, ci siamo uniti, abbiamo fissato un obiettivo e capito che tutto dipendeva da noi. Non solo da quello Stato che in parte ci appariva già colpevole, ma innanzitutto da noi, dal dovere che avremmo compiuto e da come lo avremmo compiuto. Poco prima accadde la stessa cosa, quando Libero Grassi venne ucciso. La reazione non fu di resa. Ci siamo guardati dentro, sentiti colpevoli tutti, giovani, ragazzini, bambini, anche quelli che non lo eravamo affatto. Da quei momenti è nato tutto: l’antiracket, la cultura della legalità, un certo modo di essere, le scelte di vita e professionali di centinaia di persone. Da quell’inferno è nata la bellezza.

Oggi, quando succedono cose negative, che per fortuna non hanno più quella portata, quel che si vede è invece rassegnazione, scoramento, sfiducia. Qualcuno si stupisce e si domanda ingenuamente perché, nonostante i segnali di questo cambiamento negativo ci siano ogni giorno. L’antimafia degli ultimi anni, seppure ancora viva e forte, ha perso il senso dell’unità, ha messo in secondo, terzo piano gli obiettivi. La stessa definizione di antimafia non riguarda più un mondo intero, ma è divenuta l’etichetta da appiccicare a ognuno dei tanti piccoli recinti che compongono questo mondo e che si guardano da lontano e spesso in cagnesco.

E quando uno dei tanti uomini normali, a cui si attribuiscono doti eroiche, ossia etichette, mostra una sua debolezza, un carattere che non ci piace, una caratteristica che non risponde alla sagoma idealizzata dell’eroe perfetto, o peggio casca in una buca morale, invece di incassare il colpo e, nel frattempo, proteggere tutto quello che di buono c’è qui intorno, si assiste a una cascata di parole, sottolineature, accuse, piccole e acidule rivalse. I recinti diventano gabbie di leoni: si aprono e scatta la bagarre. Giornalisti che accusano giornalisti, attivisti in guerra tra loro, schiere di pessimisti che si stracciano le vesti e dicono che tutto è finito, orde di fannulloni che per un attimo si destano dal sonno e lasciano sfogo alle immancabili banalità (“sono tutti uguali”, “non cambierà mai niente”), avvoltoi di ogni genere che ne approfittano per svolazzare ghignanti sul nemico di turno o su chi gli stava antipatico da sempre.

Un gioco deprimente nel quale ci si dimentica che la mafia, nel frattempo, ci osserva e si gode lo spettacolo. E ci si dimentica anche di tutti coloro che in basso, sui territori, nelle province dilaniate, nelle scuole, nei quartieri insegnano, lottano, scrivono, raccontano, denunciano o convincono a denunciare, amministrano rifiutando e combattendo sistemi criminali. Esseri umani, uomini e donne, spesso dai nomi che non dicono niente al di fuori dei loro contesti, gente che vive senza scorta guardandosi attorno, persone con le loro paure, debolezze, con pregi e difetti, con vizi e virtù, che semplicemente non accettano che la mafia e la corruzione mettano le mani sulla bellezza. Quella stessa bellezza di cui parlava Peppino.  Una bellezza che sanno riconoscere, che vogliono difendere o che pretendono di riportare laddove adesso ha trovato posto l’inferno.

Non importa se qualcuno si ricorderà di loro, se qualcuno li riconoscerà, se i mass media si accorgeranno delle loro storie e dei loro nomi. A loro non importa definire l’antimafia, né partecipare al dibattito sui problemi del movimento: sono soldati civili dentro a un campo di battaglia quotidiano e l’unica cosa che veramente hanno a cuore è provare a vincere. Insieme. Senza mai rinunciare, nemmeno per un attimo, all’obiettivo. Questa è la gente a cui si deve rispetto e in nome della quale si dovrebbe evitare di travolgere tutto e di dare giudizi definitivi su ciò che è realmente antimafia. Che magari appare fragile in alto, ma che in basso è viva. E lotta sempre per quella bellezza.

Massimiliano Perna –ilmegafono.org