Il peso specifico delle parole, quelle dette e quelle taciute, è enorme. Le parole sono sempre un’arma potente: riescono ad influenzare le coscienze e le emozioni delle persone, possono affermare o distorcere qualunque verità. C’è un mestiere che racconta i fatti e gli accadimenti del mondo, la vita di tutti i giorni che poi diventa storia, un mestiere che vive di parole: il giornalismo. Le parole hanno molte facce: qualche volta sono un atto d’amore e di dignità, di coraggio, altre volte diventano un esercizio volgare al servizio del miglior offerente. Il potere, in ogni angolo del mondo, ha sempre avuto bisogno di servi fedeli mascherati da giornalisti, pronti e capaci di raccontare i fatti con l’attenzione e l’ipocrisia necessarie. Il potere compiace e corrompe, coinvolge e attira, a volte senza che riusciamo a rendercene conto e, allora, il solo modo per restare liberi è non compiacerlo, non dargli mai del tu. Nessun potere può essere amico.

In ogni sistema esistono sempre delle variabili incontrollate e incontrollabili e per ogni servo che si inchina c’è ancora chi è capace di dare alle proprie parole il colore della dignità. E allora scrive, racconta, denuncia. È la sola strada che il giornalismo etico e responsabile conosce, l’unica in grado di lottare contro quello deviato, irresponsabile e odioso che stabilisce un patto con il potere. L’unica strada capace di lottare contro la disinformazione, voluta e preordinata, che spesso si avvale delle notizie false divulgate attraverso la rete dei fabbricanti di fake news, un mondo complesso e articolato di organizzazioni o singole persone che fanno dell’informazione un business su cui si investono soldi e interessi politici.

“Non c’è nulla che eguagli l’andare sul posto. Un pezzo è diverso quando lo vivi, che sia a Milano o in Afghanistan. Il mestiere di giornalista va fatto così. Come l’ho fatto io. Faccio fatica a dare consigli, perché non voglio che mi si rimproveri di aver consigliato male. Io sono andato dappertutto. Ho vissuto molte guerre e ho avuto paura. La paura resta. Resta sempre. La paura non è un’abitudine. Nonostante ciò, ho avuto una vita assolutamente felice. Ho fatto quello che mi piaceva: ho scritto. Certo, anche Ettore Mo ha bucato una notizia qualche volta…”. Un vecchio reporter di guerra come Ettore Mo diceva che c’è un solo modo per raccontarle, per fare capire a chi legge e a chi guarda cosa veramente significhi una guerra: è essere li.

Sono tanti i giornalisti, i reporter che sanno “essere lì”, per capire, per conoscere, per raccogliere una testimonianza e raccontarla. Non sono quasi mai graditi a chi decide come e quando fare una guerra, soprattutto se non si fermano di fronte alle prime apparenze, alle prime notizie. Qualche volta scavano in profondità, qualche volta trovano quello che non avrebbero dovuto trovare. A volte sono “firme” già affermate, a volte sono inviati magari sconosciuti ai più, ma sono una presenza vera, capace di restituire la decenza al sistema dell’informazione. A volte incontrano qualcosa che è più forte di loro, una pallottola, una bomba o un segreto che deve rimanere tale, e per questo non potranno essere li un’altra volta.

Oggi c’è un mondo che si affaccia su un abisso, ma anche di fronte a quell’abisso una gran parte dell’informazione sembra incapace di fermarsi e ritrovare la dignità della parola. Prevalgono altre scelte: il salotto televisivo, per esempio, dove vale tutto a condizione che il tutto sia urlato a voce alta. L’analisi storica e politica dei fatti, la capacità di riflettere e di raccontare la genesi degli avvenimenti, l’onestà intellettuale di testimoniare i fatti nella loro interezza lasciano il posto a interessi di parte, all’audience e alle immagini ad effetto capaci di parlare alla pancia e non alla testa. È un gioco perverso, che alimenta la cultura della diffidenza e del fastidio con cui in tanti guardano alla figura del giornalista e del reporter.

Eppure, basterebbe guardare dietro di noi e risalire la corrente della storia recente, ricordare nomi e cognomi dei tanti che hanno speso una vita per raccontare al mondo quelle storie e quelle verità così scomode e così capaci di disturbare la vita di chi preferisce nascondere la testa sotto la sabbia. Dalle guerre di ieri e di oggi ai migranti che muoiono in mare, dalle storie di miseria e di mafia agli intrighi politici: non basterebbe un muro per contenere nomi e cognomi di chi ha pagato con la vita il dovere e il diritto di documentare e raccontare. Perché, dunque, amare questo mestiere? Perché quell’istinto, così difficile da tenere a freno, che porta a camminare su una strada così pericolosa? Sembra strano dirlo, ma la risposta a questa domanda è più facile di quello che sembra: è la voglia di essere vivi, di contribuire in qualche modo a portare il proprio mattone per costruire una casa diversa e migliore, per tutti.

È questa idea di vita che ha cancellato la vita di molti giornalisti. Penso a Ilaria Alpi e Pippo Fava, per esempio, a Enzo Baldoni e tanti altri. Ognuno di loro era su un fronte di guerra, diverso nella forma ma uguale nella sostanza e nel prezzo pagato in prima persona. Ognuno di loro ha conosciuto la parte peggiore e più feroce dell’umanità e ognuno di loro è stato, a suo modo, dimenticato: dallo Stato, dalle istituzioni e anche da gran parte della gente comune. Enzo Baldoni scriveva che “Guardando il cielo stellato ho pensato che magari morirò anch’io in Mesopotamia, e che non me ne importa un baffo. Tutto fa parte di un gigantesco divertente minestrone cosmico, e tanto vale affidarsi al vento, a questa brezza fresca da occidente e al tepore della Terra che mi riscalda il culo. L’indispensabile culo che, finora, mi ha sempre accompagnato”. Enzo Baldoni, un ficcanaso con le tasche colme d’ironia e intelligenza, curiosità e gentilezza, non era il corrispondente di una televisione importante o di un prestigioso giornale, ma qualcuno e qualcosa a metà strada fra il volontario e il giornalista freelance.

Conosceva e girava il mondo e raccontava le guerre. A modo suo, certo, ma con una grande onestà intellettuale. I reporter di guerra sanno che ogni giorno può essere l’ultimo che racconteranno, e accettano questa partita con la vita. Brent Renaud aveva 51 anni ed era un reporter di guerra. Dopo aver raccontato i conflitti in Afghanistan e in Iraq e il narcotraffico in Messico, le primavere arabe e l’esodo della carovana dei migranti, è morto così, ucciso ad un checkpoint vicino Kiev mentre stava documentando la fuga dei profughi di questa guerra fra Ucraina e Russia.

Oggi vedo negli occhi di Francesca Mannocchi la stessa luce che ricordo negli occhi di Ilaria Alpi. Francesca, giornalista freelance che si occupa con la stessa passione e lo stesso coraggio di migranti e guerre e che oggi è inviata di guerra in Ucraina. Poi esco dal cortile di casa e penso a Daphne Caruana Galizia, uccisa perché cercava, indagava e raccontava cosa stava succedendo a Malta, in quell’angolo di Mediterraneo culla dei paradisi fiscali. Penso ad Anna Stepanovna Politkovskaja, giornalista russa che parlava di diritti umani e raccontava quello che succedeva in Cecenia. Diceva che “il compito di un dottore è guarire i pazienti, il compito di un cantante è cantare. L’unico dovere di un giornalista è scrivere quello che vede”. Aveva osato sfidare Vladimir Putin su questo terreno, sarebbe ancora viva se non lo avesse fatto.

Sono solo alcuni nomi fra i tanti che hanno fatto e fanno del giornalismo un’idea di vita. Si paga sempre un prezzo quando si cammina a testa alta senza piegare la schiena, e tante volte il prezzo lo decidono quelli che fanno lo stesso mestiere ma non hanno problemi a piegare la schiena in cambio di una carriera e di vantaggi personali. Poi, ultimo ma non ultimo, il peccato di arroganza e di presunzione che tante persone commettono quando decidono di giudicare l’intero albero, senza osservare le singole foglie. Le persone non sono tutte uguali e non è vero che tutti hanno un prezzo. Troppo facile, e vigliacco, individuare le categorie ed emettere sentenze senza appello. Le persone non sono tutte uguali e i giornalisti sono persone anche loro. Il bene e il male abitano questa Terra da sempre e ognuno di noi sceglie su quale lato della strada camminare. Vale per i giornalisti come per ognuno di noi.

Maurizio Anelli -ilmegafono.org