C’è un gioco sporco che appassiona l’Europa da troppi anni, e la partita si gioca tutta sulla pelle di esseri umani che, in un modo o nell’altro, arrivano ad un passo dalla meta. Poi, ad un metro da quella meta, trovano il filo spinato. Qualcuno riesce a passare oltre, qualcuno non ce la fa e qualcun altro deve ricominciare passando dal via. Superato quel muro se ne trovano altri, difficili da scalare: indifferenza, astio e rancore. Difficile ricominciare una vita e credere che quella vita sia possibile lontano da casa e dagli affetti, difficile ridare linfa ad un albero dopo aver strappato le sue radici. Ma il gioco sporco appassiona l’Europa, e non solo, troppi i giocatori d’azzardo seduti al tavolo e ognuno di loro ha un asso nella manica, da calare sul tavolo al momento giusto. Ognuno di loro ha qualcosa da chiedere e da ottenere.
Allora, quello che in questi giorni accade alla frontiera fra Polonia e Bielorussia non è diverso da quello che succede nel Mediterraneo, in Bosnia o sui passaggi alpini dell’alto Piemonte, alla frontiera con la Francia. Qualcuno accoglie i migranti, stremati e disperati, qualcun altro li spinge al macello consapevole di farlo. Sono scene già viste, cambia solo la cabina di regia: oggi è il turno della Bielorussia, che gioca il suo asso nella manica per rispondere alle sanzioni che la Comunità Europea ha deciso nei suoi confronti e allora spinge la carovana dei migranti verso il confine con la Polonia, dove la carovana troverà ad attenderla i soldati e i blindati, gli idranti e i lacrimogeni. La foresta al confine diventa così qualcosa a metà strada fra un dormitorio, dove i fuochi accesi con i rami degli alberi non riescono a togliere il gelo dalle ossa, e un campo di battaglia.
Per terra, davanti a quei fuochi, si incrociano sguardi che arrivano dall’Iraq, dalla Siria e dall’Afghanistan. Sono sguardi stremati e spaventati, come quelli che si incrociavano un anno fa nella terra di nessuno che era diventata la Bosnia-Erzegovina, quando il gioco sporco era di casa nella tendopoli di Lipa. Nel freddo di quei boschi provano a sopravvivere, in attesa che l’Europa e il mondo si accorgano di loro. Cosa cambia rispetto a quello che da anni accade nel Mar Mediterraneo? Cambia solo lo scenario: da una parte i boschi e il filo spinato e dall’altra il mare, ma la trama del film è sempre la stessa. Anche l’Europa sembra sempre la stessa, oppure no, dipende da come si osserva la sua incapacità di essere parte attiva, la sua incapacità di farsi carico di questo momento storico che è puerile definire solo come “emergenza”. Il dubbio allora si fa strada: è davvero incapacità o è qualcosa di diverso, per esempio un calcolo cinico e opportunistico? Perché quando gli Stati e i governi usano i migranti come merce di scambio e di ricatto, non solo politico ma anche economico, nel confronto con altri Stati, allora il gioco diventa davvero sporco.
Quando le frontiere diventano un mezzo per costruire muri occorre chiedersi perché e a chi giova. In questo gioco sono tante le carte sul tavolo: l’ondata razzista e xenofoba che da tempo aleggia sull’Europa è il fondamento dei movimenti della destra fascista che non è mai stata sconfitta nel Vecchio Continente, ma non basta a spiegare tutto. Ci sono interessi economici che diventa difficile fingere di non vedere: gli accordi fra Italia e Libia, per esempio. Oltre a rappresentare un insulto all’umanità, a legittimare e finanziare i lager libici, favoriscono apertamente accordi economici fra i due Paesi, da cui l’industria militare italiana trae vantaggi enormi. Lo stesso discorso vale per l’Egitto, e a trarne beneficio in questo caso non sono solo le aziende che vendono armi al regime del presidente Abdel Fattah al-Sisi, ma anche quelle banche italiane che concedono finanziamenti e garanzie che consentono alle imprese italiane, Leonardo in primis, di rispettare tutti i tempi di consegna.
L’ipocrisia di gran parte dell’Europa è riuscita a trasformare il dramma dei migranti in un business, dove fiumi di denaro vengono investiti per finanziare progetti che nulla hanno a che vedere con l’aspetto umanitario: di fatto la Guardia costiera libica, nei mezzi e nella formazione dei suoi uomini, è il risultato più evidente di questo genere di investimenti e di “aiuti” che il nostro Paese ha offerto alla Libia. Quello che vale nei confronti della Libia vale anche per altri Paesi, dall’Egitto al Niger. E vale anche per la Bielorussia. I grandi flussi migratori di questi ultimi anni hanno un bacino enorme da cui attingere: sono tutti quei territori, dal Medio Oriente all’Africa, devastati da guerre su cui l’Occidente ha enormi responsabilità.
Davanti a questo scenario la posizione delle diplomazie europee si concentra soprattutto sulle politiche di respingimento, sulla difesa dei confini e sulla costruzione di muri, sulla minaccia di sanzioni economiche. Nel frattempo, i migranti affogano nel Mediterraneo e si consumano nei boschi di confine. La rotta del Mediterraneo e la rotta balcanica questo sono: disperazione e morte. L’Europa non è sola al tavolo da gioco, perché il gioco sporco piace anche all’altra parte del mondo. La carovana dei migranti cammina anche sulle strade e sui confini d’America: secondo una stima del Washington Post sono quasi due milioni i migranti respinti o arrestati al confine tra Stati Uniti e Messico. La politica di respingimento e di rimpatrio voluta e studiata da Donald Trump continua anche sotto la guida dell’attuale Presidente USA, Joe Biden.
Alla povertà e alla fuga da regimi dittatoriali, alle carestie e ai cambiamenti climatici, si aggiunge oggi una ferita ulteriore che amplifica i numeri della “carovana dei migranti” che il “mondo dei grandi” guarda con fastidio: la pandemia. Il mondo, questo mondo che ha scelto il modello sbagliato, si chiude ed esclude, sceglie la strada degli interessi economici di una sola parte, dei nazionalismi e della razza, alza muri e filo spinato intorno ai propri confini e ogni giorno che passa dimostra di non volere e sapere guardare oltre il proprio giardino. Il mondo sceglie la strada peggiore, convinto di essere invincibile e non impara, non sa e non vuole leggere la sua stessa storia, anche quando quella storia insegna che i nazionalismi e l’appoggio alle finte democrazie generano solo nuovi schiavi.
Quella storia insegna che gli schiavi cercheranno sempre una nuova rotta, attraverseranno sempre un mare o una foresta in cerca di un’idea che assomigli alla vita. È una partita a scacchi che dura da sempre, e quella carovana di pedoni, che cammina per inseguire quell’idea, si scontra con le torri e gli alfieri che difendono il Re. La storia però racconta che qualche volta le torri crollano e il Re perde la partita.
Maurizio Anelli – ilmegafono.org
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