Dopo i risultati elettorali in Norvegia e in Germania, c’è chi si è affrettato a dichiarare che dalla crisi si sta uscendo a sinistra. Ma una veloce analisi della situazione smentisce questa lettura, perché il Paese scandinavo e la locomotiva dell’Europa la crisi non l’hanno conosciuta. O meglio, l’hanno solo sfiorata, in modo neanche lontanamente paragonabile ad altri Stati europei. Si era detto lo stesso nel dicembre scorso, dopo la vittoria di Joe Biden negli Stati Uniti, ma anche i motivi alla base del cambiamento di inquilino alla Casa Bianca erano altri rispetto a un riposizionamento a sinistra: in primis l’inaffidabilità di Trump e i timori per la democrazia, con la relativa mobilitazione dell’elettorato democratico e, tra gli altri, il protagonismo delle minoranze e la scelta di un candidato “centrista”.
Lo stesso si può dire del balzo del Partito Comunista alle legislative in Russia, passato dal 13 al 21% perché l’oppositore storico Aleksej Navalnyj, in sé non particolarmente progressista, aveva dato ordine ai suoi elettori di votare i candidati con maggiori possibilità di battere il partito di Putin, valutando collegio per collegio. In America Latina, in pandemia le elezioni hanno premiato presidenti di destra in Ecuador e Salvador e di sinistra in Perù e Bolivia.
Riassumendo, l’idea che la crisi economica causata dalla pandemia abbia spinto l’elettorato verso sinistra non trova conferma nei processi elettorali laddove le elezioni si possono considerare “pulite”. Invece, il dato confermato statisticamente è che, durante la pandemia, in 81 Paesi la situazione delle libertà individuali, della libertà di stampa e del rispetto dei diritti umani è peggiorata, mentre solo in uno, la Nuova Zelanda, è migliorata. Il presidente cinese Xi Jinping ha recentemente usato una parabola illuminante per chiarire la posizione del suo Paese sui temi più caldi: “Se le scarpe si adattano è noto solo a chi le indossa. Su quale sistema possa funzionare in Cina, solo i cinesi hanno il diritto di parlare”. In sostanza, ciò che succede in Cina sono affari della Cina: è questa la risposta sia alle proteste per la situazione della minoranza musulmana uigura sia alle pressioni contro l’avanzata di Pechino a Hong Kong.
Dalla crisi, si legga pandemia, non è detto quindi che si esca a sinistra, e nemmeno a destra. Di sicuro se ne sta uscendo con un mondo cambiato, che da un lato non riesce a mettersi d’accordo sul grande tema dell’ambiente, dall’altro è diventato terreno fertile per il consolidamento e la proliferazione di democrazie illiberali o di veri e propri regimi autoritari. La sospensione di alcuni diritti fondamentali durante la pandemia è diventata permanente in molti Paesi, mentre in Occidente i cosiddetti “no green pass” manifestano contro immaginarie dittature sanitarie che permettono però loro di esprimere il dissenso liberamente e pubblicamente.
Nessuno invece si mobilita per quanto denunciato dal segretario generale dell’ONU, António Guterres, l’oscenità cioè di un mondo ricco, con Paesi dove l’80 % della popolazione vaccinabile è stata immunizzata e sta arrivando la terza dose, mentre il 90% degli africani ancora aspetta la prima. La denuncia è caduta nel vuoto perché al momento è scomparso il senso di appartenenza a un unico destino: l’idea, cioè, che siamo tutti sulla stessa barca ormai si sente risuonare solo dalle parti del Vaticano. Nel mondo del “si salvi chi può” i poteri forti dell’economia fanno grandi affari e gli aspiranti dittatori trovano una strada in discesa. E non è complottismo, ma la triste constatazione che dalla pandemia stiamo uscendo molto peggio di come siamo entrati.
Alfredo Luis Somoza -ilmegafono.org
Commenti recenti