I cambiamenti climatici possono presentarsi anche in tribunale, o meglio, possono dar vita a molte cause giudiziarie. È quanto emerge dallo studio dell’UNEP (Programma Ambientale delle Nazioni Unite): le controversie giudiziarie dovute a motivi legati al clima sono sempre più numerose. Si calcola, infatti, che lo scorso anno si siano registrati circa 1500 casi del genere, depositati in 39 paesi, Unione Europea compresa. I soggetti interessati sono nella maggior parte dei casi ong e partiti politici, ma non mancano fasce considerate “fragili” quali anziani, migranti, bambini e popolazioni indigene, molto più esposte anche ai rischi del Covid-19, non solo alle emergenze ambientali. Per alcune popolazioni, infatti, il cambiamento climatico vuol dire conseguenze dirette dell’innalzamento dei mari, delle condizioni meteorologiche al limite, dell’inquinamento.
Le cause principali si muovono intorno alle “violazioni dei diritti climatici”, ossia casi in cui il clima influisce negativamente sul diritto alla vita, al cibo, all’acqua e alla salute. Talvolta i governi vengono chiamati in tribunale per non aver rispettato questi diritti attraverso gli impegni sul clima, altre volte per il “greenwashing”, ossia informazioni false da parte delle aziende sull’impatto ambientale di certe scelte. Senza dimenticare poi il fenomeno della migrazione “climatica”, ossia la fuga da paesi in preda a desertificazione e condizioni climatiche disastrose.
Il ruolo dei giudici, dunque, diventa molto importante nella lotta al cambiamento climatico: una decisione in tribunale può infatti intervenire lì dove i governi non agiscono, “è uno strumento potente per indurli a render conto del loro fallimento”, sottolinea Michael Burger, Direttore esecutivo del Sabin Center for climate change alla Columbia Law School.
Redazione -ilmegafono.org
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