Il 25 novembre, anche quest’anno, è passato. Fiumi di parole, post, slogan, condivisioni, messaggi istituzionali. Un giorno per dire No alla violenza. Dire, appunto, per poi dimenticare il giorno dopo. Non tutti, sia chiaro. Ci sono persone, donne e uomini, associazioni, professionisti, reti che ogni giorno, non solo il 25 novembre, si battono contro la violenza di genere, denunciano, aiutano a denunciare, sostengono, accolgono. Con pochi mezzi e volontariamente, spesso muovendosi dentro situazioni difficilissime, senza strutture e con rischi molto pesanti. Per loro, per chi lotta, per chi lavora nel silenzio, per chi si espone, così come per chi è stato o è vittima di violenza, il 25 novembre è un giorno diverso, non è un giorno speciale di lotta, ma quello nel quale si può solo sperare che il tema abbia maggiore e costante attenzione.
Per tutti gli altri, invece, è solo un evento da calendario del buon social media manager o al massimo un momento di riflessione e sensibilizzazione a scadenza. A questo 25 novembre siamo arrivati guadando la palude di fango e orrore che ha riempito le notizie di cronaca. Non solo i recenti casi di femminicidio (due proprio nella notte del 25 novembre, una delle donne uccise aveva denunciato il suo carnefice), ma anche il caso Genovese e quello del revenge porn che ha colpito la maestra di Torino. Tutte storie, queste ultime, che hanno dimostrato ancora una volta che l’assassinio è solo l’esito finale, il compimento di un abominio che parte da azioni e linguaggi quotidiani, da violenze prima più sottili, poi sempre più feroci, barbare, disumane, fino ad arrivare alla morte, il più delle volte annunciata, evitabile. Ne sono stati raccontati tanti, in questi anni, di violenze e delitti che si sarebbero potuti evitare se solo, alle parole, le istituzioni avessero fatto seguire i fatti.
Ed è stucchevole e stupido, oltre che ipocrita, prendersela con Diego Armando Maradona e con l’attenzione mondiale dedicata, a partire dal pomeriggio del 25 novembre, alla sua morte. Perché (qualcuno dovrebbe lo spieghi a Laura Pausini) non è certo la copertura mediatica o l’attenzione della gente a una notizia di portata planetaria per la scomparsa di un personaggio che ha segnato un’epoca (al di là del giudizio che se ne voglia dare, ammesso che sia obbligatorio dare giudizi), a sminuire la portata di una giornata che viene già svuotata di senso dal relegare a una sola data l’attenzione al tema, e dall’inerzia quotidiana dei cittadini e soprattutto delle istituzioni. Non è di Maradona la colpa, né di chi ne parla. La colpa è di chi pensa che con i tweet e i post si cambino le cose. Il dito andrebbe puntato sull’immobilismo di chi dovrebbe mettere in atto strumenti concreti e non lo fa. Di chi dovrebbe fare in modo che le denunce non cadano nel vuoto (come accaduto di recente a Padova) lasciando ancora più sola chi denuncia. Di chi dovrebbe prevenire e fare qualcosa a livello educativo, senza argomenti tabù.
Perché è vero che oggi, rispetto al passato, ci sono strumenti normativi importanti, che possono consentire un intervento sanzionatorio, ma troppo poco è stato fatto per la prevenzione e soprattutto l’educazione. Non ci sono stati investimenti in meccanismi sociali che, ad esempio, consentano a molte donne, che in certi contesti vivono sotto ricatto economico, di potersi liberare attraverso strumenti di sostegno che rendano più facile la denuncia e la liberazione da condizioni di violenza e privazione. Poco o niente è stato fatto per finanziare, potenziare e realizzare strutture che possano accogliere chi si sottrae alla violenza degli uomini e ospitare in totale sicurezza le donne e i loro figli. Soprattutto è ancora lunga la strada di un cambiamento culturale, attraverso un percorso formativo che parta sin dall’infanzia e che educhi i maschi a modelli culturali svuotati dal sessismo e dal maschilismo che ancora, in Italia, sono forti e dominanti.
Le cose non sono come erano 30 anni fa, certo, ma siamo ancora nel guado e ci vorranno decenni per misurare un cambiamento reale, che coinvolga tutti e che abbatta una mentalità che appartiene agli uomini e che, purtroppo, spesso condiziona anche certe donne. Perché, se la violenza fisica dei carnefici è una prerogativa degli uomini, quella culturale e psicologica a volte viene assecondata anche da altre donne. Lo abbiamo visto nel caso della maestra di Torino, punita per il fatto di essere una donna come tutte le altre, di vivere la propria sessualità come tutte, e purtroppo incappata in un criminale, in un ometto minuscolo che, per sentirsi più forte, ha pensato di usare il virus della sottocultura maschilista.
Un criminale colpevole di quello che è un reato odioso, come il revenge porn, e che ha trovato molti complici: non solo gli amici maschi dalla morale infima, ma anche due donne. Una che ha deciso di minacciare la maestra per evitare che denunciasse quanto stava subendo, e un’altra, una preside, che ha pensato di usare il suo ruolo istituzionale e formalmente educativo per prestarsi a sostenere ciò che è invece diseducativo, tutelando cioè chi ha commesso un reato e punendo la vittima di quel reato. Un comportamento osceno (questo sì), la fotografia cruda di un Paese che a volte sembra irredimibile, ostinato a non curare le proprie patologie culturali. Le stesse di un uomo tanto potente quanto minuscolo, quel Genovese capace di sentirsi invincibile e di violentare brutalmente per ore una ragazzina per poi, una volta scoperto, frignare e dare la colpa alla droga e non alle sue bestiali perversioni sessuali. Ma Genovese, nell’Italia che odia le donne, è in ottima compagnia.
Come ad esempio quella di quel Vittorio Feltri che pubblica un delirante articolo nel quale, tra frasi volgari, sessiste e sporche, alla fine colpevolizza la vittima e i suoi genitori. Questa è l’Italia, prima e dopo il 25 novembre. L’Italia che odia le donne. Un odio che appartiene agli uomini e alle donne e che va combattuto insieme, da uomini e donne. Perché non è solo una questione di genere ma soprattutto una questione di cittadinanza, civiltà e cultura, la cultura di un Paese che non si è ancora liberato di quei retaggi che gli anni ‘70 sembravano avere la forza di poter demolire e che invece hanno resistito e, anzi, nel ritorno indietro di una nazione sempre meno colta, hanno ripreso vigore, arrivando persino a mettere in discussione conquiste sancite da battaglie lunghissime, come quella sull’aborto e sul diritto di scelta delle donne.
Le parole, però, servono a poco, e sarebbe auspicabile che, nel dibattito sui fondi per la ripartenza, si dedicasse un ampio capitolo alla lotta alla violenza sulle donne, prevedendo investimenti concreti per la prevenzione e il contrasto alla violenza e per il potenziamento di un sistema educativo e formativo che coinvolga la scuola. Non basterà, certo, se a ciò non si aggiungerà un mutamento radicale di modelli, comportamenti, codici e forme di linguaggio che politica e media continuano irresponsabilmente a veicolare, ma sarebbe comunque un passo avanti importante. Quantomeno per far sì che il 25 novembre, in un futuro non troppo lontano, non sia solo una data simbolica di impatto social e carica di ipocrisia, ma un momento per raccontarci e misurare in concreto cosa è stato fatto per combattere gli effetti di un fenomeno che, per conseguenze e numero di vittime, ha i tratti di una guerra sanguinosa che in pochi sono davvero disposti a fermare.
Massimiliano Perna -ilmegafono.org
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