E cosa ne sarà di Charley, che cadde mentre lavorava, e dal ponte volò e volò sulla strada. Niente di che. Verrà riservato, a Charley, uno spazio nel registro che racchiude le morti bianche, quei decessi violenti che hanno sempre fatto rabbia ma che poi, alla fine, sono diventati cifre statistiche, articoli per la stampa senza colore se non quel bianco a fare da fondo all’inchiostro. Come accadeva già a Spoon River. Sono “morti bianche” perché, stando a quanto spiegato da Giorgio De Rienzo sul Corriere della Sera qualche anno fa, alla mano che le ha spinte nel vuoto non puoi darle colore: non esiste, quella mano. Sulle carte processuali alla fine non c’è. A Stefano Fallone e Paolo Pasquali, 53 e 29 anni, qualche giorno fa non li ha spinti nessuno a Roma: sono caduti da soli, caduti dall’ottavo piano di un enorme edificio in ristrutturazione, un progetto che dovrebbe impiegare anni per vedere la luce, con quattordici milioni di euro a rafforzarne le fondamenta.
Adesso incrinate da due vite spezzate. Stavano tagliando una trave di cemento, l’impalcatura è crollata e sono precipitati giù. Indossavano, probabilmente, i dispositivi di sicurezza, ma altrettanto probabilmente non erano imbracati. Indagheranno, e forse un paio di nomi a quelle mani bianche si proverà a darli. Ma il punto non è questo.
All’inizio di quest’anno l’INAIL ci ha raccontato che sul lavoro, nel 2019, hanno perso la vita tre persone al giorno. Oltre mille fra uomini e donne che, se quella mattina non fossero andati al lavoro, oggi non sarebbero stati pianti da familiari e amici. Un migliaio di vite che restituiscono un lungo pianto moltiplicato ogni giorno dagli affetti che le hanno circondate, e se varchiamo le Alpi, o andiamo oltre l’Isola delle correnti, arriviamo a contarne annualmente due milioni. E fra questi dodicimila sono bambini.
Numeri da capogiro, da ecatombe, ma silenziosi. Hanno il problema dell’accumulo delle gocce, che puoi contarle solo mentre cadono: da sole, o a gruppi di tre, non riescono a mostrare il peso reale della tragedia. Vuoi o non vuoi le medie che le statistiche ci mostrano ogni mese, o ogni anno, non riescono a far rumore. Le stragi sul lavoro, beh, quelle sono un’altra cosa, diventano titoli a tre colonne e gli animi s’infiammano, ma per trovare animi infiammati dobbiamo tornare indietro al 2007, all’incidente della ThyssenKrupp di Torino, con sette operai morti in un’esplosione e con De Rienzo che dava quella descrizione delle morti bianche sul Corriere della Sera; e prima ancora a Colleferro nel ‘38, coi suoi sessanta morti in un’esplosione, o a Bollate vent’anni prima, quando nella fabbrica di munizioni Sutter&Thévenot morirono 59 operai.
Non possiamo augurarci, però, di assistere a delle stragi perché ci s’infiammi fino a prendere fuoco, e così bruciare l’immobilismo: dobbiamo solo pretendere che i controlli sulla sicurezza vengano garantiti. Sempre. E basta. O no? I sindacalisti della Cgil ai piedi di quel grande palazzo a Roma hanno detto, mentre una squadra del Nucleo Speleo-alpino-fluviale metteva in sicurezza la trave pericolosamente sospesa a venti metri, che va capito “se c’era, all’interno della zona di lavoro, un responsabile incaricato di supervisionare il rispetto delle norme”. Va capito. Un’impresa da quattordici milioni di euro e almeno tre anni di lavoro, con un esercito di operai e tecnici, che deve far capire ai sindacalisti se c’era qualcuno addetto alla sicurezza. E mentre si puntualizzava che questo va capito, la Cisl twittava che “dobbiamo fermare questa strage quotidiana”. La Cisl, nel frattempo, twittava.
Ora: non è necessario sfogliare i giornali, aprire i registri, cercare nelle biblioteche. È abbastanza probabile che dalla morte dei 59 operai di Bollate fino a quella dei 2 operai romani ci saranno stati migliaia di “ora basta”, migliaia di “dobbiamo fermare questa strage quotidiana” e migliaia di articoli come questo dove è scritto che dobbiamo solo pretendere che i controlli di sicurezza vengano garantiti. E allora perché la gente continua a morire nei cantieri?
Adesso lì a Roma arrivano i sequestri, le indagini e l’immancabile fascicolo per “omicidio colposo” (“colposo”, che fuori dal gergo giuridico significa che nessuno lo voleva, ma anche che nessuno l’ha evitato), ma insieme a tutto questo arrivano pure i nostri musi storti, i nostri sguardi corrucciati, le nostre rimostranze. E poi? Tutto resta confinato nell’alveo liquido del nostro disappunto, amaro e straordinariamente digeribile. Perché già da prima che Charley volasse da quel ponte finendo sulla strada non è stato fatto nulla di davvero efficace: abbiamo srotolato valanghe di parole sopra le quali abbiamo liberato la nostra rabbia, ma non siamo stati capaci di avere la certezza che un’impresa da quattordici milioni di euro desse una garanzia di sopravvivenza ai suoi operai. Siamo arrivati dopo, come al solito, per recitare la nostra prece fatta di “ora basta”. E allora basta, ora.
Seba Ambra -ilmegafono.org
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