La scorsa settimana, a Roma, è stato presentato il rapporto realizzato da Avviso Pubblico e intitolato: “Lo scioglimento dei Comuni per mafia. Analisi e proposte”. Un rapporto che fotografa la realtà allarmante e radicata delle infiltrazioni mafiose nella pubblica amministrazione. I dati e i numeri emersi sono a dir poco drammatici: dal 1991 (anno in cui venne fatta una legge ad hoc sullo scioglimento per mafia) ad oggi, il numero di decreti di scioglimento ha raggiunto quota 328. Tra questi, 26 sono stati annullati dai giudici amministrativi. Ben 62, invece, riguardano amministrazioni comunali colpite più volte. In totale, sono 278 gli enti coinvolti nella procedura di verifica per infiltrazioni mafiose: di essi, sono 249 quelli effettivamente sciolti (compresi un capoluogo di provincia e cinque aziende sanitarie).
La quasi totalità degli enti sciolti si trova al Sud. Calabria, Campania e Sicilia sono infatti le regioni maggiormente colpite (rispettivamente 115, 108 e 79), con la provincia di Reggio Calabria che conta da sola ben 66 scioglimenti, seguita da quella di Napoli (59). Inoltre, come già accennato poc’anzi, sono 45 le amministrazioni colpite due volte, mentre 17 sono quelle che hanno una triplice recidività (3 di questi comuni si trovano sempre in Calabria). Ovviamente non ci si può dimenticare dei casi eclatanti che hanno colpito pure il Nord, come ad esempio quelli di Sedriano (MI) nel 2013 e Lavagna (GE).
Insomma, il quadro che ne esce fuori è quello di un Paese corrotto fino al midollo, dove troppo spesso vi sono amministratori locali legati alle cosche mafiose (che controllano già il territorio). Come si evince dallo stesso rapporto, è spesso la politica a “contattare” i boss del clan di riferimento e non viceversa: a differenza di quanto si possa pensare, non è sempre e soltanto il clan a cercare il contatto con gli amministratori locali, ma proprio il contrario. Tutto ciò, ovviamente, non può che facilitare la creazione di un “tessuto consolidato di relazioni illecite”, dove politica e criminalità organizzata vanno a braccetto in cerca di una “reciproca convenienza”.
Questo è probabilmente il dato più preoccupante e dovrebbe far riflettere un po’ tutti: se siamo giunti al punto in cui chi dovrebbe amministrare un’area, un territorio, una comunità, non può fare a meno di contatti ed “aiuti” illeciti, significa che lo Stato ha perso miseramente, accettando in maniera inesorabile il controllo e l’influenza delle mafie. Una vera e propria sconfitta che è poi la causa di un rallentamento sociale ed economico che attanaglia l’intera nazione, ma a cui sembra che nessuno voglia porre un freno. La prova più eclatante di quanto appena affermato, tra l’altro, ce la dà sempre il rapporto, all’interno del quale si evince che “il 9,5% dei Comuni sciolti versava in condizioni di deficit finanziario”, spesso a causa di una spesa pubblica gestita illecitamente e in maniera arbitraria.
Cosa si può fare, dunque, per arginare un problema che sembra radicato e di difficile soluzione nel breve periodo? Tra i diversi limiti della legge del 1991 (modificata più volte nel corso degli anni) ve ne è uno che andrebbe urgentemente superato: la legge, infatti, permette ad esponenti di una giunta precedentemente sciolta per mafia di ricandidarsi; ciò significa che, chi ha fatto parte di un ente che ha operato illecitamente, può tranquillamente ripresentarsi alle successive elezioni e quindi riottenere il “posto”.
Ecco, forse sarebbe necessario iniziare ritoccando, laddove possibile, certi buchi legislativi al fine di impedire che un comune venga sciolto ripetutamente: questo sarebbe il minimo, sarebbe un inizio. Ma è chiaro che prima di tutto bisogna cominciare a pretendere una selezione politica adeguata e magari un governo che, invece di propagandare odio verso gli ultimi e i disperati, si occupi davvero di questi ambiti, che dovrebbero essere la priorità e che mettono seriamente a rischio la sicurezza e il progresso della nazione.
Giovanni Dato -ilmegafono.org
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