Occuparsi di mafia. Una volta l’anno. A parole. Perché in realtà di mafia, in concreto, non ci si occupa mai. Lo abbiamo sottolineato tante volte: nel nostro Paese, il tema della lotta alle organizzazioni criminali è rimasto seppellito sotto la vacua e odiosa retorica della propaganda. Una propaganda fatta di divise indossate a ogni occasione, di stemmi esibiti senza pudore, di annunci tanto roboanti quanto vuoti. Una propaganda che preferisce scatenarsi contro gli ultimi, i disperati, gli innocenti, mentre resta timida o perfino silenziosa nei confronti delle mafie e dei contesti nei quali agiscono e comandano.
Silenzi che fanno rumore, come fa rumore l’inchiesta che coinvolge il sottosegretario alle Infrastrutture, Armando Siri, leghista e consigliere economico del ministro dell’Interno. Siri è indagato con l’accusa di corruzione insieme a un faccendiere, Paolo Franco Arata, a sua volta sospettato di essere il socio ombra di un imprenditore ritenuto vicino al boss Matteo Messina Denaro. Un caso che scotta, un’accusa pesante che, al di là del garantismo legittimo e sacrosanto, dovrebbe però suggerire al leader della Lega di chiedere un passo indietro al sottosegretario in attesa di chiarire la sua posizione. Ma il numero uno leghista non ci sta. Difende a spada tratta uno dei suoi fedelissimi. Che, peraltro, non dimentichiamolo, ha sulle spalle una bella condanna patteggiata per bancarotta fraudolenta, cosa che sarebbe dovuta bastare per non assegnargli incarichi di rilievo nel governo del (presunto) “cambiamento”.
Il caso Siri ha fatto rumore e ne parlano tutti, ma ci sono altri casi nei quali ad essere fragoroso, come si diceva, è stato il silenzio. Rosarno, ad esempio. Dove il titolare del Viminale, durante i primi mesi del suo mandato, si presentò nel territorio che lo ha eletto e scelse di parlare dei “clandestini”, prendendosela con loro, con i braccianti, indicando come colpevoli quelli che invece sono vittime di un sistema di sfruttamento bestiale di matrice italiana e spesso mafiosa. Contro la ‘ndrangheta il ministro non proferì parola, nemmeno un accenno sul dominio che essa esercita nella piana di Gioia Tauro. La ‘ndrangheta per Salvini non esiste o non ha importanza.
Le mafie per Salvini sono solo una parola da usare per i propri annunci enfatici e sterili (“Cancelleremo la mafia in qualche mese o anno”), ai quali un popolo maturo, invece che con gli applausi, dovrebbe rispondere quantomeno con una sonora pernacchia. La verità è che la lotta alle mafie è fuori dagli interessi del ministro e del governo, come dimostra il decreto sicurezza, che alle mafie fa il solletico, o come la nuova misura sugli appalti, che alza notevolmente la soglia (fino a 150mila euro) per la procedura senza gara. Una manna dal cielo per chi negli appalti si infiltra per poter inquinare il mercato.
A Salvini non interessano le mafie e non basta andare a fare una parata a Corleone (scusa usata per evitare il 25 aprile), peraltro dicendo qualche ovvietà e cercando sempre, in qualche modo, di infilarci in mezzo lo straniero. Al ministro dell’Interno non interessano nemmeno i sospetti sugli uomini che lo servono fedelmente. Non gli interessa sapere della onorabilità o meno dei suoi.
D’altronde, da chi non è avvezzo a farsi giudicare per dimostrare la sua innocenza o colpevolezza, non possiamo attenderci che pretenda che un fedelissimo si faccia da parte in attesa di chiarire la sua posizione. Il leader della Lega non si preoccupa nemmeno del fatto che i suoi rappresentanti in Sicilia, dopo le elezioni, siano stati accusati per voto di scambio. Nulla. Così come non ha il minimo interesse per chi viene ucciso dalle mafie, perché se l’assassino è italiano la sua propaganda perde vigore. E allora, se un carabiniere viene ucciso e uno ferito da un criminale italiano in una realtà atroce come il foggiano, luogo ad altissima densità mafiosa di cui nessun governo si occupa da anni, il ministro non sente il dovere di essere presente al funerale.
Vincenzo Di Gennaro è morto facendo il suo lavoro, indossando con onore quella divisa che qualcun altro indossa invece per gioco, per farsi una foto o per fare un video o mentre ingoia un boccone. Al funerale di Di Gennaro il ministro dell’Interno non c’era. Era a Monza a inaugurare una nuova caserma. Era nel suo nord a fare promesse e coreografie, mentre in quel sud che disprezza e per il quale non fa nulla c’erano altri e non lui. Lui, che a parole (e con giubbotti, felpe e cappelli esibiti in ogni occasione) dice di amare le forze dell’ordine, non c’era. Era assente, proprio lì dove avrebbe dovuto urlare il suo sdegno contro le mafie, agitare la minaccia concreta di andare a demolire i fortini mafiosi nei quartieri di Foggia e delle città della provincia controllate dai clan.
Non c’era Salvini e mai ci sarà, perché non gli interessa colpire la mafia. Per lui è molto più produttivo e più semplice fare il duro con i deboli o usare slogan vuoti, puntando su un popolo sempre più inetto, che applaude chi gli ha costruito un nemico falso, che consente di non sentirsi in colpa per l’inerzia e la sottomissione di fronte al nemico vero, quello pericoloso, potente, violento. Quello che uccide economia, futuro, ambiente, salute, speranza di intere parti del nostro Paese. Un nemico che non si combatte certo con le parate, le frasi sterili, le foto e i tweet o esibendo mitra indegnamente rivolti agli avversari politici. Né tantomeno proponendo leggi che alle mafie non dispiacciono.
Massimiliano Perna -ilmegafono.org
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