Non tutti i cambiamenti possono essere seriamente considerati “evoluzione”. Ci sono realtà che, cambiando, assumendo una veste più moderna, fanno fare a tutta la società un grosso balzo indietro. È questa la sensazione che porta con sé la nuova relazione semestrale della Direzione Investigativa Antimafia, un documento che descrive una mafia “nuova”. Secondo quanto riportato nella lunga relazione, le mafie stanno cambiando, adeguandosi un po’ di più ai tempi ed al contesto sociale odierno. Dalle indagini e dall’osservazione del fenomeno mafioso nella sua organizzazione emergerebbe infatti una vera e propria metamorfosi della criminalità.
Innanzitutto è notevolmente scesa la fascia di età, non solo della banale manovalanza, ma anche di figure di un certo rilievo nell’organizzazione. Un ringiovanimento che determina una nuova ondata di violenza e nuove abitudini, come ad esempio l’utilizzo dei social network, che sembrerebbero aver soppiantato un po’ i vecchi “pizzini”, perché considerati metodi di comunicazione più istantanei e meno reperibili. Inoltre, nel nuovo assetto organizzativo parrebbe essere cambiata la figura della donna che starebbe assumendo un maggiore rilievo, tale da essere diventato più semplice per esse, soprattutto se in assenza del marito o dei figli, scalare l’assetto gerarchico, fare carriera.
Cambiamenti non proprio trascurabili in una organizzazione così tanto legata alle tradizioni e che i redattori della relazione associano alla crisi occupazionale. Secondo gli investigatori, infatti, le organizzazioni criminali attingono manovalanza nelle fasce giovanili, “nonostante la forte azione repressiva dello Stato”, proprio perché i giovani sono spesso inoccupati o con mansioni poco qualificate. Sembra però un tantino riduttivo accettare l’ipotesi che la crisi porti da sola a questo tipo di percorso. È forse più plausibile indicarla come uno dei fattori determinanti, aiutato però da biasimevoli “mode” odierne.
Solo pochi giorni fa, parlando della propria esperienza, l’imprenditore antiracket Gianluca Maria Calì ci aveva fatto riflettere su certi errori, su certe mode pericolose. “Se si continua a far passare il messaggio che chi delinque ha tante donne, auto e moto potenti, ogni tipo di arma e droga, tanti soldi, ogni forma di divertimento e viene descritto come persona di successo agli occhi di un ragazzo, in fase di crescita e formazione, come credete possa essere interpretato? E chi pensate possa emulare?”. Una frase che, alla luce del documento della Dia, appare quasi profetica seppure nella propria semplicità.
Sembrerebbe ovvia la necessità di lanciare messaggi di un certo tipo, eppure spesso non avviene. Canzoni, film, ristoranti e molti altri tipi di intrattenimento risultano spesso, nel folle tentativo di attirare un maggiore pubblico e maggiori introiti economici, quasi inneggianti alla criminalità. Il risultato è sotto gli occhi di tutti: siamo figli dell’era stragista, siamo cresciuti con esempi di uomini e donne che hanno dato la vita per servire la giustizia eppure non è bastato, il crimine viene ancora considerato affascinante.
Un fascino che delude non poco le speranze e le aspettative di chi la mafia la combatte, non solo per lavoro ma anche, semplicemente, nella propria vita, con le proprie scelte quotidiane. Scelte che chiamano in causa, al contempo, la responsabilità di tutti, di chiunque non si schieri fortemente contro la criminalità, anche semplicemente non cantando una canzone.
Anna Serrapelle- ilmegafono.org
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