Una tragica pantomima. Un gioco sporco, totalmente politico, sulla pelle di 47 persone sopravvissute all’orrore. La vicenda della Sea Watch si è chiusa dopo 13 giorni dal soccorso nel Mediterraneo e dopo una settimana di sosta forzata in mezzo al mare, in una rada ventosa a nord di Siracusa. Si è chiusa in un mattino di vento gelido, come quello che ha soffiato durante le prime notti di attesa. Alla fine, la nave della ong tedesca è sbarcata al porto di Catania nella stessa banchina dove, ad agosto scorso, la nave Diciotti della Marina Militare italiana, con a bordo un centinaio di migranti, venne tenuta sotto sequestro per giorni dal governo italiano e, in particolar modo, dal ministro dell’Interno.
Una vicenda che ritorna e che si è in qualche modo intrecciata con quella della Sea Watch, dal momento che, nelle stesse ore in cui la nave della ong tedesca veniva tenuta lontana dai porti, assumeva sempre più rilevanza politica la questione dell’autorizzazione a procedere nei confronti del ministro dell’Interno proprio per il caso Diciotti, con l’accusa di sequestro di persona e abuso di potere. Tutto ruota attorno ai desideri di onnipotenza del vicepremier/capo del Viminale e alla compiacenza congiunta dell’altro vicepremier, del ministro delle Infrastrutture e del presidente del Consiglio. La Sea Watch è stata oggetto di una spietata tecnica di propaganda, nella quale la legge è finita in secondo piano, violata più volte dalle istituzioni nazionali e dall’autorità portuale territorialmente competente e eccessivamente acquiescente.
Il diritto è divenuto un muretto da scavalcare con l’agilità di un gatto e la faccia tosta di chi “sente” di avere il popolo dalla sua parte. Si è creato un corto circuito pericoloso, dal punto di vista anche della forma, se è vero che dal primo diniego non motivato della richiesta di attracco al porto di Siracusa, presentata dal comandante della Sea Watch, all’ordine finale di proseguire verso Catania, tutto è arrivato in maniera poco ufficiale, con un ampio uso della forma orale a scapito di quella scritta. E quando invece qualcosa di scritto c’è stato, qualcuno ha pensato bene di infischiarsene.
Come nel caso dei provvedimenti inviati, il 30 gennaio, dal Tribunale dei minorenni di Catania all’assessorato per le Pari opportunità e alla prefettura locale, con i quali si disponeva l’affidamento ai servizi sociali del Comune di Siracusa dei 15 minori non accompagnati, provvedimenti non considerati dal governo, che ha poi affidato gli stessi minori a strutture della città etnea. Ma questo è solo un pezzo di una vicenda che ha conosciuto sfumature odiose, paradossali, perfino grottesche se si pensa ai numeri in gioco e alla strategia di fondo che anima l’azione del governo.
Sono tre le cose che risaltano, in particolare. Innanzitutto l’inaccettabile sovrapposizione tra strutture centrali e periferiche, con un relativo caos che ha generato situazioni in aperto contrasto con le norme internazionali e le convenzioni in materia di rifugiati e diritti umani. In secondo luogo, il continuo, minaccioso e ossessivo tentativo di offuscare l’opera di solidarietà e soccorso svolta dalle ong in mare, ormai praticamente rimaste in solitudine. Infine, l’arroganza di interrompere e non permettere il completamento di una necessaria quanto dovuta operazione di soccorso. Il tutto corredato da un linguaggio e da un atteggiamento sprezzanti, che oltrepassano i limiti del bullismo istituzionale e rendono ancora più irrespirabile questo clima già inquinato dalla perpetua campagna elettorale e da una diffusione preoccupante di odio popolare.
Attorno alla vicenda drammatica della Sea Watch, abbiamo conosciuto ancora meglio l’Italia. Abbiamo avuto modo di vedere due parti di un Paese che è sempre più contrapposto. Da un lato, abbiamo ritrovato un popolo riempito quotidianamente di menzogne, slogan, visioni illogiche, digerite e trasformate poi in concime per una crudeltà che inizia dalle parole, dalla violenza verbale, da una ottusità che uccide tutto ciò che è raziocinio, umanità, pensiero critico. Sui social come nei bar, la Sea Watch e le ong vengono sistematicamente trasformate in nemico pubblico numero uno, servito con un contorno di notizie inesistenti e di dualismi alternativi, inconciliabili e insensati tra chi non ha e chi ha ancora meno. Un popolo che vive l’ebbrezza di chi crede di poter dire qualsiasi cosa senza pagarne le conseguenze.
Un insieme di individui che peraltro non sono mai riusciti ad essere popolo e, nonostante ciò, fingono di esserlo per paura di guardarsi in faccia e scoprire il proprio complesso, la verità sulla loro storia, che non è solo quella eroica della Resistenza o della lotta alla mafia o del volontariato, ma anche e soprattutto quella del fascismo, delle mafie, dell’evasione.
Per fortuna, però, i giorni che la Sea Watch ha trascorso in mare ci hanno fatto vedere anche l’altra faccia, quella bella, dell’Italia. Quella parte di cittadini di Siracusa e di tante altre città che si sono opposte al governo e che hanno invocato umanità: cittadini, associazioni, istituzioni locali, i sindaci di molti comuni della Penisola, le diocesi, gli intellettuali che hanno messo la solidarietà davanti all’orrore del governo e dei suoi fan. Abbiamo visto una opposizione che, dopo tempo e centinaia di errori e quintali di responsabilità, ha alzato timidamente la testa, ha provato a redimersi (forse troppo tardi) dinnanzi agli effetti aumentati, potenziati, eccessivi di cause rispetto alle quali esistono tragici concorsi di colpa. Abbiamo due tipi di Italia, una granitica e crudele, l’altra più umana ma molto meno compatta. Una divisione pericolosa in un contesto storico come quello attuale.
Qualcuno, alla fine di questa storia estenuante, canta vittoria, glorificando arbitrariamente una linea politica dura, di una durezza che però non risolve qualcosa né spaventa nessuno, se non i più deboli. Che pagano il prezzo, saldano il conto dell’altrui arroganza. Migranti, ragazzi come tanti, giovani stremati che, entrando in porto, mentre la politica ciarlava, intonavano un coro di liberazione, saltavano di gioia, si abbracciavano, perché vedevano finalmente una terra dove sperare di ricominciare, mettendo da parte l’orrore della Libia e del viaggio e superando i mille ostacoli e le umiliazioni che questa Italia e questa Europa sono capaci ancora di riservare. Anche con le parole.
Massimiliano Perna -ilmegafono.org
Commenti recenti