Domenica scorsa i militari turchi, con l’appoggio di milizie islamiste, hanno preso il controllo del cantone curdo di Afrin, nel nord della Siria. Questa sconfitta annunciata è avvenuta sotto gli occhi di Russia e Stati Uniti che, fino a pochi mesi fa, consideravano le milizie curdo siriane come loro alleate. In particolare, Washington ha fatto ricorso all’aiuto determinante delle milizie curde Ypg (Unità di protezione del popolo) per sconfiggere lo Stato Islamico in città come Manbij e Kobane. Ora però Ankara sta puntando proprio su Manbij e, se dovesse arrivarci, questo farebbe degenerare ulteriormente la situazione.
Le forze statunitensi, infatti, non hanno alcuna intenzione di abbandonare Manbij, dove si trovano dallo scorso anno, ma il presidente turco, Recep Tayyip Erdogan, ha già annunciato che l’operazione “ramo d’ulivo” sarà estesa a quella città e nella provincia di Idlib (nel nord-ovest del paese). Nella città di Manbij sono presenti sia le Ypg che le forze Usa, che hanno istituito delle vere e proprie basi militari nell’area. Una parte della regione di Idlib, quella settentrionale, è invece sotto “il monitoraggio” delle forze turche, in base agli accordi di Astana con Iran e Russia. Tornando ad Afrin, il tragico bilancio dell’operazione (chiamata paradossalmente “ramo d’ulivo”) è attualmente di decine di morti (da entrambe le parti), centinaia di feriti e decine di migliaia di sfollati.
Se ciò non bastasse, il governo turco sembra inoltre essere riuscito nell’obiettivo di annientare le ambizioni autonomiste ed indipendentiste curde nel nord della Siria, dove nel marzo 2016 è stata proclamata la Repubblica di Rojava. Si è trattato di un esperimento di democrazia, laicità e rispetto della parità di genere in un territorio circondato da feudi dello Stato Islamico, ora pressoché sconfitto in tutto il nord della Siria.
I rappresentanti della maggioranza curda nei tre cantoni che fanno parte del Rojava, Afrin, Kobane e Jazira, hanno dato vita ad una forma di governo autonoma, non riconosciuta ufficialmente da alcuna organizzazione internazionale, tantomeno dal regime di Bashar al Assad, fondata sugli ideali del fondatore del Partito dei lavoratori del Kurdistan (Pkk), Abdullah Ocalan, detenuto in un carcere di massima sicurezza in Turchia. Dai racconti e dai reportage di giornalisti e osservatori internazionali o semplici volontari che hanno trascorso del tempo nei cantoni curdi della Siria, è emerso come effettivamente in quei territori siano stati applicati i principi della democrazia diretta, del rispetto dell’ambiente e della parità tra uomini e donne, alle quali vengono affidati spesso ruoli di comando.
Ankara teme proprio questo: che i curdi-siriani, a differenza dei fratelli turchi del Pkk, possano creare una regione autonoma e democratica nel paese vicino, simile a quella del Kurdistan iracheno dove l’attuale governo locale non è però affiliato al movimento fuorilegge turco. Nel caso in cui, infatti, il Rojava dovesse essere riconosciuto a livello internazionale, anche in un lontano futuro, il presidente turco Erdogan non solo vedrebbe indebolita la sua guerra interna contro il Pkk, ma anche l’appoggio determinante dei nazionalisti per un rinnovo del suo mandato alla guida della nazione. La domanda che però sorge spontanea ora che Ankara ha annunciato di voler attaccare Manbij e altre città curdo-siriane è cosa faranno gli Stati Uniti e la Russia? Staranno ancora a guardare?
G.L. -ilmegafono.org
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