Mentre la politica litiga sul tema dell’immigrazione e sullo squallore razzista di un fosco parolaio, in Italia si muore ancora di lavoro. Tre morti in un’azienda metalmeccanica di Milano. Una cifra che aggiorna il bollettino di una guerra quotidiana che negli ultimi dieci anni, in Italia, ha contato 13mila vittime. Persone, lavoratori, madri e padri di famiglia. Soldati disarmati e inconsapevolmente spinti dentro un guerra bianca, perché spesso il sangue non fuoriesce, non compare. Si muore in silenzio, a volte, senza un’esplosione o un incendio. Si muore schiacciati, asfissiati, avvelenati, precipitati, spezzati da un volo che sembra infinito o da un malore da fatica. In silenzio. Ogni giorno.
E se non si muore, se si rimane invalidi, zoppi, ciechi, sordi, se ci si ammala per le esalazioni, per il contatto con sostanze tossiche, quel silenzio avvolge tutto e difficilmente troverà parole pronte a squarciarlo, ad essere urlate contro chi ha il dovere di garantire uno dei principi fondativi della nostra democrazia, della Costituzione, della Repubblica. Il diritto al lavoro, ma soprattutto il diritto a non morire di lavoro. C’è bisogno di rumore in questo Paese, per svegliare chi governa e chi fa opposizione, per costringerli a sentire il puzzo che emana la loro inerzia, il loro continuo distrarsi su questioni da avanspettacolo della politica. C’è bisogno di pugni allo stomaco per costringerli a sentire il dolore che le loro scelte provocano sulla vita delle persone.
Il lavoro, un tema completamente dimenticato, se si eccettua la mannaia politica azionata sui diritti dei lavoratori, sulle loro tutele, sui controlli. Potere alle aziende e agli imprenditori: questo è stato il diktat degli ultimi quattro/cinque governi, con quello Renzi a far da punta massima, a spostare con sfrontata arroganza l’ago della bilancia verso i padroni. Che esistono ancora e godono. Mentre i lavoratori vengono criminalizzati e annaspano nella precarietà o nella disoccupazione. Che non è questione di dati o di Istat, ma questione di vissuto, di contratti beffa o farsa, di lavoro nero mascherato, di sfruttamento, di diritti sindacali piegati alla logica del bisogno.
E i sindacati? Corresponsabili. Protagonisti della bagarre politica e sempre più lontani, generalmente, dai problemi del lavoro. La sicurezza del lavoro l’hanno dimenticata tutti. L’incompiutezza delle ultime leggi in materia, la carenza di formazione seria, ma soprattutto di controlli e ispezioni efficaci, sono solo alcuni dei segnali che spiegano l’aumento degli infortuni e degli incidenti mortali in questi ultimi anni. Un tema che è stato sbalzato fuori dal dibattito pubblico, nonostante i numeri agghiaccianti, nonostante il 2017 sia stato un anno nerissimo.
La verità è che abbiamo bisogno dei morti, in questo Paese, per tornare a occuparci di lavoro. Adesso parlano tutti, si organizzano tavoli di discussione, i sindacati si svegliano affermando che le cose non accadono per caso e denunciando a posteriori quello che poteva succedere. Perché? Perché ne parlano tutti adesso? Perché hanno dimenticato così in fretta la ThyssenKrupp e tutti gli altri casi eclatanti, quando la quantità dei morti ha costretto tutti, per qualche tempo, a non girare più lo sguardo altrove? Certo, ora si dirà che la colpa è degli operai, come sempre. Che sono incoscienti, che non sanno che ci sono delle procedure e così via. La magistratura accerterà le responsabilità, capirà se gli allarmi davvero non abbiano suonato e se le procedure siano state o meno rispettate.
Una cosa però non ce la deve spiegare nessuna indagine o sentenza: i responsabili della sicurezza di un’azienda hanno il compito di impedire anche le eventuali incoscienze di un lavoratore. Pertanto che la si smetta di colpevolizzare le vittime. Per una volta si prenda atto delle colpe di un Paese tornato indietro anni luce sul piano dei diritti, un Paese che non fa rispettare seriamente le regole sulla formazione alla sicurezza sul posto di lavoro, sia esso una fabbrica o un ufficio. Un Paese che si preoccupa del rispetto formale delle prescrizioni di legge ma poi non si occupa di verificarne il rispetto sostanziale.
Non ci si riferisce a un caso specifico, ma all’insieme del mondo del lavoro, dove per esperienza possiamo dire di aver visto corsi sulla sicurezza pro-forma, addetti alla sicurezza non adeguatamente formati, procedure mai attivate. I controlli mai pervenuti. Le ispezioni, le verifiche sul rispetto delle norme, le attività di prevenzione: tutto sepolto insieme al dibattito sulla sicurezza sul lavoro. Eppure si muore ogni giorno e il numero di incidenti cresce in maniera abnorme. Ma il popolo bue e la politica che lo rappresenta preferiscono parlarci del falso problema sicurezza legato all’immigrazione. Una immigrazione che in gran parte è fatta di lavoratori, anch’essi sfruttati, privati di diritti, anch’essi vittime sul lavoro, morti silenziose a cui a stento si dedica un trafiletto spoglio.
Il lavoro unisce e uccide, ma la politica pompa sulla guerra interna a una classe che ha smarrito i confini ideologici di un tempo, ma che ne avrebbe di nuovi, più larghi, più eterogenei, se solo si smettesse di fare la guerra ai poveri. Un grande terreno fatto di esigenze e situazioni comuni, di sfruttamento condiviso e diritti da rinegoziare e riconquistare. Insieme. Su quel terreno dovrebbe erigersi un fronte di lotta che costringa chi aziona le leve di comando ad occuparsi di lavoro e rimettere al centro i lavoratori, i loro diritti, la loro sicurezza. Senza aspettare che ci sia l’ennesimo botto o che si sprigioni l’odore acre di un gas che uccide e lascia una scia di dolore e di rabbia che nessuna giustizia, con una sentenza, potrà mai colmare.
Massimiliano Perna -ilmegafono.org
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