Quattro anni, sono passati, da quel maledetto ottobre. E dolore e rabbia non cambiano. Come non cambiano la retorica delle istituzioni, la disperazione dei superstiti, l’indignazione di chi non accetta che l’immigrazione continui ad essere oggetto dello squallido gioco del consenso tra le belve del potere. Quello che è cambiato, in peggio, invece, è l’atteggiamento dell’Europa e, soprattutto, dell’Italia. Il mare è ormai il luogo dell’ingiustizia, il luogo in cui le Ong hanno subito ridimensionamento o esclusione, attraverso una strategica delegittimazione pompata a dovere, a vantaggio della Guardia Costiera e delle autorità libiche. In mare oggi si muore ancora (anche se i mezzi di informazione non ne parlano più), ma l’inferno si è spostato un po’ più a sud.
Il cimitero degli esseri umani è sempre più la Libia. Lo era anche prima, ma almeno da lì prima si riusciva a fuggire un po’ di più, con i segni indelebili nel corpo e nell’anima e con quella speranza disperata che spingeva l’umanità ad affrontare le onde, in assenza di canali legali e sicuri. Oggi, quell’umanità rimane molto più spesso imprigionata sotto i calci, le torture, le privazioni, gli stupri, i proiettili dei carcerieri libici, dentro le celle di lager che il nostro Paese sostiene, accetta, consente. E la speranza di liberarsi dell’orrore, di uscire e riuscire a prendere il mare per arrivare in Europa è diventata molto più piccola. Se in mare ci si arriva, spesso ci si muore come prima, ma con meno clamore.
Il governo italiano, infatti, ha scelto solo di rendere l’orrore un po’ meno visibile, più lontano dai propri occhi, come se ciò significasse allontanare anche le proprie responsabilità. Che però non mutano né diminuiscono, ma anzi crescono. E l’Europa adesso non è più così facile da utilizzare come bersaglio, come alibi, perché certe decisioni le abbiamo prese anche da soli, dopo aver sbagliato. Sempre da soli. Le firme di quelle decisioni hanno nomi e cognomi riconoscibili, volti con lineamenti precisi, sguardi e parole di ferro da sbattere sul viso già pesto dei disperati. Sono firme che vengono dagli scranni del governo italiano, con il plauso dei colleghi europei.
Questo è cambiato. Abbiamo perso ogni pudore. Di fronte ai morti abbiamo alzato un muro, sapendo che ne sarebbero morti altri e altri ne moriranno, ma lontano dal nostro sguardo, senza il mare a fare da specchio alla nostra coscienza scura come i suoi abissi. Così come è cambiata Lampedusa, che oggi ha un sindaco che insinua e pompa sulla paura e sull’odio, cercando di riportare indietro l’’orologio di un’isola che, fino a poco tempo fa, sapeva combattere la morte con le armi della solidarietà e dell’umanità.
Oggi, in generale, sembra che la civiltà abbia spento le luci e così c’è una moltitudine di esseri umani che si muove nel buio, brancolando, urlando di rabbia e disperazione. Anche la memoria ha un profilo vuoto, come se fosse consapevole che, d’un tratto, ricordare non produce più niente, non educa, non provoca cambiamenti. Non riconsegna giustizia. Ecco qualcosa che non cambia mai in questo Paese, attraversando epoche e confini etnici: i morti non hanno mai giustizia, specialmente quando sono poveri, disperati, ultimi. È il vulnus della nostra democrazia, è il sale grosso sulle ferite della nostra storia e della nostra coscienza.
Il 3 ottobre del 2013 morirono 368 persone, ma potremmo dire 388 visto che ne risultarono disperse circa venti. I superstiti parlarono di tre barche che li videro in difficoltà e non si fermarono a soccorrerli. Vi furono polemiche anche sui soccorsi tardivi. Morirono 368 persone, ma non si è mai indagato sull’efficienza reale dei soccorsi, su possibili ritardi o errori. Vale a dire sulle nostre eventuali responsabilità. L’unica cosa che si fece fu denunciare un presunto scafista e indagare, vergognosamente, i superstiti, rei di essere entrati clandestinamente in Italia. Pochi giorni dopo, l’11 ottobre, morirono altre 268 persone, sempre a Lampedusa. Si scoprì poco dopo che i naufraghi avevano chiesto aiuto e soccorso alle autorità italiane e maltesi ben sei ore prima di affondare (leggi qui).
Si è scoperto, anche grazie a indagini giornalistiche come quella di Fabrizio Gatti, che la Marina italiana si rifiutò di intervenire, per negligenza e per un assurdo gioco di forza con le autorità maltesi. Se fosse intervenuta, come Malta chiese più volte, quelle persone annegate (tra cui 60 bambini) oggi sarebbero salve. Ci sono indagini in corso, ma ancora, quattro anni dopo, nessuna istituzione ha chiesto scusa, ha ammesso, ha spiegato in maniera convincente. Perché dobbiamo tenere alta la bandiera dei salvatori di uomini, mantenere l’immagine pulita di chi ha “sempre fatto il proprio dovere” di fronte all’Europa “egoista, brutta e cattiva”. Non prendiamo coscienza, non lo faremo mai, figuriamoci se ci concediamo il gesto dignitoso dell’ammissione di colpa.
Preferiamo nascondere tutto dietro la retorica di un Paese a due facce: quella seriosa e avvilita delle commemorazioni dei morti e quella malvagia e glaciale dell’indifferenza o della condanna a morte per i vivi. Un Paese che, con una firma, con un decreto, come fosse una questione burocratica, invece di operare per fermare il traffico e aprire una strada sicura e accogliente per chi cerca salvezza, ha scelto di ampliare il cimitero più lontano dal proprio centro, cioè quello libico.
Lo ha affidato a terzi, ha esternalizzato l’orrore e l’inferno in questo nuovo e comodo cimitero. Ci ha buttato dentro dei corpi sconosciuti e ci ha nascosto per bene ogni speranza di giustizia, l’unica capace di costringerci alle nostre gravissime responsabilità. Quelle che oggi ci impediscono di dare alla memoria il senso che meriterebbe. Ogni giorno. Non solo il 3 o l’11 ottobre.
Massimiliano Perna -ilmegafono.org
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