“…Ci troviamo davanti a un vero scontro frontale tra le grandi corporazioni internazionali e gli Stati. Questi subiscono interferenze nelle decisioni fondamentali, politiche, economiche e militari da parte di organizzazioni mondiali che non dipendono da nessuno Stato. Per le loro attività non rispondono a nessun governo e non sono sottoposte al controllo di nessun Parlamento e di nessuna istituzione che rappresenti l’interesse collettivo. In poche parole la struttura politica del mondo sta per essere sconvolta, le grandi imprese multinazionali non solo attentano agli interessi dei Paesi in via di sviluppo ma la loro azione incontrollata e dominatrice agisce anche nei Paesi industrializzati in cui hanno sede… ”. (Salvador Allende, 4 Dicembre 1972 Palazzo dell’ONU)
È passato molto tempo da quel 4 Dicembre, eppure quelle parole di Salvador Allende conservano lo stesso valore e profumano ancora di coraggio, saggezza e onestà storica. Era l’11 Settembre del 1973 quando la politica americana e la potenza economica delle multinazionali contribuirono a distruggere il sogno cileno con l’appoggio decisivo della finanza internazionale che bloccò la concessione di prestiti al Cile. Il governo di Allende, che rappresentava un’ampia coalizione di sinistra democraticamente eletto nel novembre del 1970, era un governo che aveva la fiducia e il sostegno delle classi popolari, della borghesia progressista, dei tanti intellettuali di sinistra come Victor Jara e Pablo Neruda.
Eppure bastarono le prime riforme dal profumo socialista (nazionalizzazione delle miniere, una riforma agraria, l’annuncio della sospensione del pagamento del debito estero, l’introduzione del divorzio, il blocco delle sovvenzioni statali alle scuole private, l’estensione del congedo di maternità) per creare intorno al Cile quel clima di ostilità che portò al colpo di Stato militare e ad una dittatura che il mondo ebbe modo di conoscere per la sua violenza e che segnò tutto il Sud America. Quello straordinario discorso di Salvador Allende davanti alla platea dell’ONU è ancora oggi un dito puntato sulle “grandi corporazioni internazionali”. La politica internazionale continua a essere determinata dai grandi interessi economici e finanziari.
È sempre stato così, ma mai come in questi ultimi decenni la cosa è apparsa tanto evidente. La crisi economica, volutamente globale, sconvolge gli equilibri mondiali e gli assetti economici di interi Paesi. Le guerre locali, alimentate e fomentate ad arte, sembrano nascere appositamente per riequilibrare quegli assetti. Le scelte economiche sono tavole della legge impartite dai potentati economici, e la politica è la marionetta i cui fili sono manovrati dai veri registi della finanza mondiale. E la crisi da economica diventa, inevitabilmente, sociale e politica. Lo squilibrio economico alimenta quella guerra sociale che sembra l’unica strada per garantire i privilegi di chi muove le marionette politiche cui è concessa l’illusione di essere alla guida di città e nazioni.
È il Diritto che perde la partita, il “Diritto” nel senso più nobile del termine. E l’interferenza di chi muove le marionette entra dappertutto, come un veleno. Quando JP Morgan muove i suoi alfieri all’attacco delle Costituzioni dei Paesi dell’area mediterranea, scritte dopo la seconda guerra mondiale, giudicandole colpevoli di aver un profumo troppo socialista e schierate dalla parte dei lavoratori, lancia un messaggio preciso. In realtà JP Morgan continua semplicemente un discorso che qualcuno aveva già iniziato. I primi colpi di pennello di questo disegno hanno un nome e un cognome: Margaret Thatcher, primo ministro del Regno Unito dal 4 maggio 1979 al 28 novembre 1990, in Europa e Ronald Reagan, il 40º presidente degli Stati Uniti d’America, in carica dal 1981 al 1989. In ogni caso il messaggio viene recepito velocemente.
Accade anche in Italia: quando l’ambasciatore degli Stati Uniti in Italia, John Phillips, intervenendo recentemente a un convegno a Roma afferma che “…una vittoria del No al referendum costituzionale sarebbe un passo indietro per attrarre gli investimenti stranieri in Italia…”, lancia un messaggio perfettamente in sintonia con JP Morgan. Tornano in mente allora le parole che, all’inizio degli anni ‘70, Henry Kissinger pronunciò a proposito del Cile di Salvador Allende: “Non vedo perché dovremmo restare con le mani in mano a guardare mentre un Paese diventa comunista a causa dell’irresponsabilità del suo popolo. La questione è troppo importante perché gli elettori cileni possano essere lasciati a decidere da soli”.
È un parallelo pericoloso e difficile, come sempre quando si confronta il presente con il passato, ma va fatto. Perché oggi come allora stiamo correndo verso un’epoca che vuole cancellare la parola “diritto” dall’agenda umana. E, mentre questo accade, la cara e vecchia Europa riscopre l’ondata nazional-populista già conosciuta nel Novecento: in Francia come in Ungheria, in Polonia come in Slovacchia, dove il Partito Nazional-Socialista è nell’alleanza di Governo. E l’ombra nera dell’estrema destra si fa strada prepotentemente, una volta ancora, anche in Germania.
L’Italia assiste e fa la sua parte in questo gioco, perché quell’ondata nazional-populista noi la conosciamo bene, ci è familiare, e non ce ne siamo mai liberati fino in fondo. E in questo panorama mancano quelle figure che riuscivano a dare un profumo di dignità alla politica. Si alzano muri, in Europa e non solo. Ma nessun muro potrà ignorare e respingere i milioni di essere umani che sono spinti da guerre e carestie a cercare altrove la vita. Il tempo passa e sta per scadere, e la “cara e vecchia Europa” dovrà fare i conti con tutto questo e soprattutto dovrà farli con se stessa e con la sua assenza, con la sua incapacità di rileggere la propria storia e il proprio “Novecento”.
Maurizio Anelli (Sonda.life) -ilmegafono.org
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