Che Roberto Saviano possa essere amato oppure odiato è nell’ordine delle cose, perché si espone, scrive, parla, racconta, critica, accusa ed è automatico che a una esposizione mediatica corrispondano nemici e amici, simpatie e antipatie. Detto ciò, però, sentir dire certe assurdità nei suoi confronti, sentir parlare di icona farlocca, ossia fasulla, con l’accusa di non aver fatto nulla contro la camorra e di aver copiato metà del proprio libro (peraltro tirando in ballo una vicenda e una sentenza che andrebbero spiegate meglio), mi sembra quantomeno eccessivo. Così come mi sembra eccessivo e assurdo che si affermi che in realtà lui e la Capacchione non rischino nulla, che nessuno li voglia morti, che pertanto non meriterebbero la scorta.

Per non parlare poi della solita volgare accusa nei confronti di Saviano di essersi “arricchito”, come se guadagnare dal proprio lavoro, a maggior ragione da un’opera letteraria e realista che gli è costata, in cambio, una vita blindata, fosse sbagliato o immorale. C’è un limite a tutto, a maggior ragione se certe parole, molto simili a quelle usate dai nemici “casalesi” di Saviano, le pronuncia un senatore, precisamente il senatore Vincenzo D’Anna, esponente di Ala, il gruppo parlamentare di Denis Verdini. Quello stesso D’Anna che ha sostenuto l’amico Nicola Cosentino, affettuosamente chiamato Nick, del quale riteneva ingiusta la carcerazione con l’accusa di estorsione aggravata e corruzione per aver favorito il clan dei casalesi.

Siamo alle solite. Le critiche mosse da Saviano al movimento verdiniano in Campania hanno fatto scattare la rappresaglia, o meglio hanno scatenato l’ego di questo curioso personaggio della politica campana, il quale, all’interno di una trasmissione radio, si è lasciato andare, smarrendo ogni freno inibitorio e riproponendo tutti i cliché del peggior detrattore. Lo ha fatto a titolo personale, a quanto pare, visto che perfino Ala ha preso le distanze dalle sue parole. Francamente inaccettabili.

Lo ripetiamo: qui non c’entrano simpatie o antipatie nei confronti di uno scrittore, ma siamo di fronte a una serie di affermazioni gravi che sono sconfessate dalla storia e dai fatti. E che vanno respinte, senza nemmeno considerare la debole ritrattazione fornita dallo stesso senatore, che si appella al clima ironico e goliardico della trasmissione (guardando e ascoltando il video, però, il tono di D’Anna appare tutto meno che ironico). Non è ammissibile che uno arrivi in una radio e si permetta di lanciare accuse, sminuire, delegittimare l’impegno di persone che hanno subito minacce concrete e che sono state protagoniste di una narrazione coraggiosa che ha acceso finalmente i riflettori su una realtà criminale come quella di Napoli e Caserta che in passato, a parte la semplice cronaca nera, fuori dalla Campania non trovava spazi di analisi o di attenzione.

Una realtà della quale non si conoscevano molto né i martiri né tutti gli altri ancora vivi e impegnati nella lotta. Che Rosaria Capacchione e Roberto Saviano abbiano contribuito a squarciare il velo che tanto comodo faceva ai camorristi e ai loro amici politici e imprenditori nessuno può metterlo in discussione. Ce ne sono anche altri, certo, di cronisti e giornalisti bravi, che hanno raccontato, hanno scritto, si sono fatti apprezzare, ma questo certo non toglie i meriti a chi è riuscito ad avere maggiore visibilità.

Per quel che riguarda la storia del plagio, vero è che Saviano ha avuto qualche problema con la citazione di alcune fonti e che è stato condannato in Cassazione per aver riportato, senza citazione, tre articoli di due giornali campani dell’editrice Libra, all’interno del suo corposo (337 pagine) e coraggioso libro “Gomorra”, ma la vicenda andrebbe chiarita meglio. La sentenza di condanna, infatti, non è rivolta alla indiscussa originalità del libro, ma è limitata appunto ad alcune piccole parti (e non a tre capitoli come asserisce D’Anna), riferendosi alla riproposizione per intero dei suddetti tre articoli, senza che venissero indicati gli autori e le testate. In pratica, la condanna riguarda lo 0,6% del contenuto del libro. Da qui a parlare di “mezzo libro” copiato ce ne passa.

Inoltre, andrebbero ricordate due cose: che la stessa editrice Libra è stata condannata in primo grado a risarcire Saviano per aver pubblicato, senza citazione delle testate, sui suoi quotidiani due articoli che lo scrittore aveva scritto e pubblicato su Repubblica e su Il Manifesto; che il vecchio editore di Libra, Maurizio Clemente, è stato condannato in primo grado a otto anni e mezzo di reclusione per estorsione a mezzo stampa. Quindi, forse, quando si parla e si lanciano accuse, oltre a prestare attenzione alla verità evitando di raccontarla solo parzialmente, bisognerebbe anche capire chi si sceglie di difendere e da che parte si sceglie di stare. E vale ancor più quando ci si lancia in considerazioni che toccano la vita delle persone.

Togliere la scorta a Saviano e alla Capacchione a chi gioverebbe? Certo non alla loro sicurezza. O forse vogliamo che accada quello che avvenne a Giancarlo Siani, che per primo aveva cercato di svelare ai napoletani distratti e all’Italia il mondo spietato della camorra? Devono necessariamente essere ammazzati Saviano e la Capacchione per dimostrare la loro “innocenza”? Un’ultima cosa: perché mai dovremmo dare a Saviano o a chiunque faccia il suo lavoro la colpa di aver guadagnato dalla vendita del suo libro e delle altre sue produzioni intellettuali? Cosa c’è di illecito e immorale nell’essere pagato per quello che si scrive?

La verità è che siamo abituati troppo male, in questo Paese, al punto da pretendere che ciò che è lecito trovi comunque una giustificazione morale. Non sarebbe più logico e civile chiedere a piuttosto a D’Anna di dirci se egli ritiene di meritare davvero il suo vitalizio e la sua futura e dorata pensione?

Massimiliano Perna –ilmegafono.org