Tenere la schiena dritta e non arretrare nemmeno davanti alla paura, alle minacce, agli incendi dolosi che inceneriscono i sacrifici di una vita. Rimanere in piedi a lottare, con la propria famiglia, nonostante l’esistenza blindata, la propria azienda chiusa, l’impossibilità per anni di lavorare, le carenze prolungate di uno Stato che, da un lato, chiede ai cittadini coraggio, ma dall’altro poi umilia quello stesso coraggio, lo rende poco conveniente da molti punti di vista. Di Ignazio Cutrò abbiamo parlato tante volte in questi anni (come ad esempio qui e qui, solo per citarne un paio), perché la sua storia è emblematica di quel che significa essere testimone di giustizia in un Paese che poi, dopo aver usufruito del tuo apporto, ti scarica e ti guarda come un rompiscatole. Ignazio ha denunciato i suoi estortori, elementi di spicco del clan Panepinto, cosca del suo paese, Bivona (Agrigento).
Ha scelto di non pagare, di non dividere con loro il frutto del suo lavoro, della sua fatica, dei sacrifici fatti prima da suo padre e poi da lui. Ha scelto, da uomo onesto, di dare l’esempio ai suoi figli e soprattutto ha deciso di rimanere nella sua città a lottare. Ha sempre pensato che non era lui a doversene andare, perché lui ha la schiena dritta e la testa alta, perché quella è la sua terra e casomai sono i mafiosi a doversene andare. Una scelta di grande dignità che però Ignazio e la sua famiglia stanno pagando a caro prezzo. La sua azienda, più volte in passato oggetto di attentati incendiari, negli anni si è trovata in enorme difficoltà, per via dei debiti accumulati nel periodo delle sue denunce e per le difficoltà a lavorare sopraggiunte dopo che Ignazio è divenuto testimone di giustizia. Da poco meno di due anni, la sua azienda è chiusa, ma i debiti con le banche e con le agenzie di riscossione rimangono. Sono più di 500mila euro da pagare, e il decreto ingiuntivo è in arrivo.
Questo nonostante il governo abbia riconosciuto (e reso noto con colpevole ritardo, solo dopo il sollecito della Commissione parlamentare antimafia) che l’azienda di Cutrò abbia accumulato questi debiti a causa dell’azione intimidatoria della mafia e per via delle denunce dello stesso imprenditore agrigentino. Un paradosso. Un tardivo ravvedimento che però ormai rischia di servire a poco, perché rende difficile l’attivazione di tutte quelle misure (mutui agevolati, sospensione delle istanze di pagamento, ecc.) previste, in teoria, per i testimoni di giustizia. Testimoni che vivono una situazione difficilissima, di cui Ignazio (e non solo lui) ci ha parlato tante volte. Cutrò, in tal senso, non si è limitato alle parole, ma ha agito, ha fondato la prima associazione nazionale dei testimoni di giustizia, per rivendicare i diritti di quei cittadini che si oppongono alla mafia, denunciano, aiutano lo Stato e spesso, troppo spesso, si trovano soli, esiliati e abbandonati a una vita che non sarà mai più normale.
Questa scelta ha fatto infuriare tanti rappresentanti delle istituzioni, in passato la Commissione antimafia gli impose di non far dibattiti, non andare in tv, stare buono. Ma Ignazio non si è fermato, a scelto di diventare una voce di questi cittadini dall’identità invisibile ma dalla storia sofferta e tangibile, lui che non ha rinunciato né alla sua identità né alla sua città. Per combattere a viso aperto. Non solo per sé stesso ma per tutti quelli nella sua condizione. Ha sensibilizzato, ha protestato, è riuscito a ottenere per la prima volta nella storia italiana una normativa che prevede, in Sicilia, l’assunzione di testimoni di giustizia rimasti senza lavoro. Oggi Ignazio si trova cartelle esattoriali e debiti e interessi che non può pagare. Si trova schiacciato da uno Stato che invece avrebbe dovuto proteggerlo e aiutarlo.
Ha minacciato il suicidio, annunciandolo sul suo profilo facebook: “Cari amici scusatemi, ma dopo il silenzio del ministero dell’Interno non mi rimane solo che darmi fuoco, non sono un perdente né tanto meno un codardo, mi hanno tolto tutto, le speranze di essere un imprenditore libero, lavorare nella mia terra, di dare ai miei figli un futuro migliore, i miei figli hanno perso tutto! Mi hanno fatto pagare le mie proteste, la nascita della Associazione nazionale testimoni di giustizia, di aver difeso e dato voce ai miei fratelli testimoni di giustizia, mi hanno rubato il mio sogno che avevo da piccolo, di diventare un imprenditore libero e siciliano”. Un grido di allarme, ma in realtà anche una legittima richiesta di aiuto e attenzione di un uomo abbandonato al suo destino. Per fortuna Ignazio ha ricevuto molta solidarietà e in piazza non si è trovato da solo, ma affiancato da gente che gli vuole bene. Non ha compiuto il gesto annunciato, l’affetto di tutti gli ha fatto capire di non essere solo adesso.
Ma non basta. Ignazio deve essere aiutato subito, il governo, il premier, il ministro dell’Interno, il presidente della Repubblica hanno l’obbligo di fare qualcosa, di togliere dalla testa della famiglia Cutrò una spada di Damocle assurda, un peso di cui non hanno alcuna responsabilità. Anche il movimento antimafia deve muoversi, stare accanto a Ignazio e a quei testimoni di giustizia che oggi vivono spesso in condizioni inaccettabili e immeritate.
Se davvero lo Stato vuole che i cittadini collaborino nella lotta alle mafie, allora è il caso di cominciare a fare realmente lo Stato, assicurando tutela piena a chi denuncia. Una tutela duratura e non limitata nel tempo, perché i processi possono pure finire (i denunciati da Cutrò sono stati condannati complessivamente a più di 70 anni di carcere), ma il rischio di subire una vendetta o di essere rovinato economicamente dura tutta la vita. Chi mette in gioco sé stesso e i propri cari non può essere usato, trattato come un pacco da scartare, svuotare e poi buttare in un angolo buio e pericoloso. Lo Stato ha l’obbligo di dare l’esempio, altrimenti la lotta alla mafia sarà molto più lunga e difficile.
Massimiliano Perna –ilmegafono.org
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