C’era una volta Attilio Manca, un giovane e promettente ragazzo di Barcellona Pozzo di Gotto, il quale, dopo gli studi, per seguire i propri sogni e la propria professione, si trasferì a Viterbo con l’intenzione di iniziare una brillante carriera nel campo dell’urologia. Ancora 34 enne era già uno dei pochi urologi italiani a operare con il metodo della laparoscopia, fu anzi il primo in Italia ad effettuare un intervento alla prostata con questo metodo. Nonostante l’incipit quella che stiamo scrivendo non è però una favola, tutt’altro, niente lieto fine per Attilio o per i suoi cari; il 12 febbraio del 2004, intorno alle 11 del mattino, fu infatti ritrovato morto nella propria abitazione con i segni di due iniezioni sul braccio sinistro, il setto nasale deviato ed ecchimosi su tutto il corpo. Dall’autopsia risultò che nel suo sangue erano presenti alcool, barbiturici ed eroina, così il caso fu etichettato e, in seguito, archiviato, come il suicidio di un eroinomane.
Sebbene sul corpo di Attilio non ci fossero altri segni di iniezioni (che ci si aspetterebbe di trovare sul corpo di un drogato), sebbene il suo computer fosse misteriosamente sparito, sebbene i parenti del giovane e i suoi colleghi continuassero a rifiutare la tesi del suicidio e a ripetere che non fosse un tossicodipendente, malgrado fosse ragionevole pensare che Attilio, da mancino puro, avrebbe avuto molte difficoltà a praticarsi due iniezioni sul braccio sinistro e, ancora, malgrado i lividi e le notevoli tumefazioni al volto (tali da renderlo irriconoscibile come dissero inquirenti ai suoi genitori negandogli la possibilità di vederlo), il procuratore che si occupò del caso non ebbe mai alcun dubbio. La sua solida convinzione non fu scalfita neanche dal racconto di una strana telefonata che Attilio, il giorno della sua morte, fece ai genitori, né dal ritrovamento, nel bagno della casa, delle impronte di Ugo Manca (cugino di Attilio vicino all’ambiente mafioso di Barcellona) che, a suo dire, era stato a trovare il cugino due mesi prima (nel frattempo però la casa di Attilio era stata scrupolosamente pulita dalla madre in visita).
Dal tragico ritrovamento del cadavere del giovane urologo sono passati 12 anni, nel corso dei quali più di un pentito di mafia ha associato la morte (o meglio l’omicido) di Attilio al nome di Bernardo Provenzano. Recentemente, il collaboratore di giustizia Carmelo D’Amico ha addirittura parlato di un coinvolgimento dei servizi segreti nell’intera vicenda, eppure poco o niente è cambiato: il caso di Attilio è ancora archiviato, Attilio Manca è, per la giustizia italiana, un drogato suicida. Alla luce degli ultimi sviluppi, abbiamo fatto qualche domanda ad Angela Gentile, sua madre, per cercare di comprendere meglio l’intera vicenda e, soprattutto, i risvolti che le ultime dichiarazioni di pentiti (dopo D’Amico avrebbe recentemente parlato di Attilio anche Alessio Alesci, ex membro della mafia barcellonese) hanno determinato sulle indagini.
Sono 12 anni che la vostra famiglia cerca la verità sulla morte di Attilio. Ci spiega perché l’ipotesi del suicidio non vi ha mai convinti?
L’ipotesi del suicidio non ci ha mai convinti sia perché Attilio non si drogava, sia perché subito abbiamo notato l’atteggiamento strano, sospetto di alcuni personaggi che ci stavano accanto e che ci hanno ingannati sin dal primo momento: non dimentichiamo mai che Ugo Manca e Antonio Rizzotto (il primario del reparto di urologia dell’ospedale “Belcolle” dove lavorava lo stesso Attilio, nonché marito della dottoressa Dalila Ranaletta, che eseguì l’autopsia considerata lacunosa dagli inquirenti) ci hanno detto che Attilio era morto per aneurisma e che aveva il volto devastato dal telecomando su cui era caduto, che si trovava sul letto. Il telecomando, come risultato in seguito dalle foto della Scientifica, invece si trovava sotto l’avambraccio.
Ci racconta quella famosa telefonata che le fece Attilio? Cosa le chiese esattamente e perché le sembrò strano?
Attilio ci telefonò giorno 11 febbraio verso le 9.30 del mattino, per dirci di fare aggiustare la moto che si trovava nella casa al mare di Tonnarella. Una telefonata che ci sembrò inadatta sia per l’urgenza, sia perché lui avrebbe usato la moto in agosto, durante il periodo di ferie. Attilio sarebbe stato ucciso quella notte stessa. La moto è risultata funzionante e la telefonata è sparita dai tabulati.
Pensa stesse cercando di mandarle qualche messaggio in codice?
Molto probabilmente sì. Abbiamo cercato di capire cosa voleva dirci Attilio: che si trovava a Tonnarella, dove fra l’altro si è rifugiato Provenzano, o che se gli succedeva qualcosa avremmo dovuto indirizzare le nostre ricerche in quel luogo?
Le dichiarazioni del pentito Stefano Lo Verso sono mai state sottoposte a riscontro? Gli è mai stato chiesto cosa intendesse con la frase pronunciata durante il processo Borsellino quater (“Ho una statuina della Madonna col bambinello che mi regalò Provenzano, spero possa essere utile a risolvere l’evento dell’urologo Manca”)? Gli inquirenti hanno mai cercato la famigerata Madonnina che gli avrebbe regalato Provenzano?
Purtroppo nessuno si è mai interessato alle dichiarazioni di Lo Verso, che anzi fino ad oggi sono cadute nel vuoto. Una cosa è certa: se Lo Verso ha messo in relazione Attilio con Provenzano un motivo sicuramente c’è. È certamente a conoscenza di qualcosa!
Con le ultime dichiarazioni dei pentiti D’Amico e Alesci qualcosa è cambiato? Le indagini sono state finalmente riaperte?
Con le dichiarazioni di D’Amico e Alesci non è cambiato nulla, anzi ad oggi noi non conosciamo le dichiarazioni di Alesci, né quelle precedenti di D’Amico. Se ne sta occupando la Procura di Roma. Speriamo che finalmente si riaprano le indagini! Non dimentichiamo che la Procura conosce anche le dichiarazioni di Setola, apprese da Gullotti (Setola in seguito ha ritrattato per paura di ritorsioni contro la sua famiglia).
Lei e la sua famiglia siete impegnati in una dura ricerca della verità per riabilitare il nome di Attilio. Su questo caso sono stati scritti libri, è stata messa in scena un’opera teatrale, eppure è ancora una vicenda avvolta nel mistero, sembrerebbe quasi volontariamente nascosta. Come se lo spiega?
Sulla vicenda di Attilio sono stati scritti tre libri: “L’enigma di Attilio Manca” , “Le vene violate” e “Un suicidio di mafia”. Al teatro Valle di Roma c’è stata una rappresentazione teatrale con la regia di Emanuele Giliberti e, adesso, c’è “Vina Fausa”. Purtroppo, però, la stampa nazionale ha cercato di oscurare o fare cadere nell’oblio il caso di Attilio, sul quale, nonostante tutto, sta crescendo l’attenzione giorno dopo giorno. Nei delitti di Stato-mafia, il silenzio è una prassi.
Dopo questi 12 anni, dopo le tante battaglie processuali, ha ancora fiducia nella giustizia italiana?
Io non ho fiducia nella giustizia italiana, ma confido ancora in quella parte di magistratura onesta che va avanti nonostante le numerose difficoltà e cerca, a volte anche a costo della vita, verità e giustizia.
Il caso Manca, dunque, è un caso spinoso e complesso. Pentiti che parlano e ritrattano, autopsie lacunose, medici che mentono, telefonate in codice sparite dai tabulati e statuette mai cercate (magari, come qualcuno ha ipotizzato, della Madonna di Tindari a una ventina di km da Barcellona): il quadro che ne emerge è davvero intricato, troppo per un semplice suicidio. E poi le mille coincidenze, il viaggio di Attilio in Costa Azzurra proprio nel periodo in cui Provenzano fu operato a Marsiglia. Per non parlare di Barcellona Pozzo di Gotto, un paese in cui la mafia è sempre stata molto forte e ben radicata, un paese che, suo malgrado, ha probabilmente seguito Attilio come un’ombra malefica. Angela è comprensibilmente una madre addolorata e una donna sfiduciata, segnata da anni di lotta per riabilitare il nome del proprio ragazzo, una lotta contro un nemico molto forte: la mafia (e forse anche lo Stato).
Fortunatamente nella lotta non è sola, perché oltre al marito e al figlio Gianluca può contare sul sostegno di una bellissima realtà associativa: l’ANAAM (Associazione Nazionale Amici Attilio Manca). Abbiamo chiesto al suo presidente, Stefano De Barba, come è nata e di cosa si occupa. “Ho conosciuto la famiglia Manca – ci racconta – nel 2010 a Viterbo, dove si erano recati per commemorare Attilio, e mi è venuta l’idea di fondare un’associazione per rafforzare la presa a livello nazionale e perché, comunque là si metta, la mafia è un problema nazionale della quale tutta Italia deve farsi carico”. “In questo mio progetto – ha continuato – ho trovato un’ottima sponda in Gianluca, il fratello di Attilio, che riveste anche la carica di vice presidente”.
Nell’illustrare l’attività dell’ANAAM ci ha specificato che, pur dedicandosi prevalentemente a mantenere ben accesi i riflettori sul caso Manca, essa si occupa di antimafia in generale e che “il baricentro della sua osservazione si focalizza sul territorio siciliano e in particolare sull’attività criminale a Barcellona Pozzo di Gotto, dove opera una delle mafie più inquietanti del messinese, che si nutre di una fitta rete di connivenze (anche interprovinciali) nel controllo delle attività illegali’.
Malgrado tutto questo, nonostante l’amore e la costante ricerca di giustizia, ad oggi il nome di Attilio non è stato ancora riabilitato: mancano la verità e la giustizia necessarie ad Attilio per riposare in pace, alla sua famiglia per trovare un po’ di conforto, e a tutti noi perché, in fondo, tutti noi siamo Attilio, dal momento che in un Paese dove si può morire, nella quasi totale indifferenza dei media, solo a causa della bravura nel proprio lavoro, nessuno può dirsi realmente al sicuro.
Anna Serrapelle- ilmegafono.org
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