A distanza di 27 anni, la giustizia italiana è ancora alla ricerca della verità su uno degli omicidi di mafia più difficili e complessi della storia: è il caso del poliziotto Antonio (Nino) Agostino, ucciso il 5 agosto 1989 a Villagrazia di Carini (PA), insieme alla moglie Ida Castelluccio, incinta di cinque mesi. Secondo la magistratura, sebbene gli accusati dell’omicidio siano i mafiosi Gaetano Scotto e Vincenzo Madonia (il primo dei due, tra l’altro, è tornato da poco a piede libero dopo aver scontato la pena al 41bis), la figura che riveste un ruolo ben più importante nell’intera vicenda sarebbe quella di Giovanni Aiello, ex agente di polizia della Squadra Mobile di Palermo e vicino ai Servizi Segreti. Secondo le dichiarazioni di alcuni collaboratori di giustizia, l’uomo sarebbe stato a totale disposizione di cosa nostra e avrebbe partecipato agli omicidi eccellenti più importanti a cavallo tra gli anni ‘80 e gli anni ‘90. Ma procediamo con ordine.

Nel luglio del 1989, secondo quanto riferito da Vincenzo Agostino, papà del poliziotto ucciso, l’agente Aiello, in compagnia di un altro collega, suona al citofono della famiglia Agostino chiedendo di essere ricevuto da Nino, in quel momento però non presente in casa. Soltanto un mese dopo, come già detto, lo stesso Nino viene ucciso sotto gli occhi del padre dai sicari Scotto e Madonia, i quali avrebbero ricevuto l’aiuto dello stesso Aiello nel distruggere la moto utilizzata per l’omicidio. Da quel giorno ha inizio il calvario dei genitori e di una famiglia distrutta da una morte inaspettata e crudele.

Secondo le rivelazioni dei pentiti Vito Galatolo (storico boss dell’omonima cosca) e Vito Lo Forte, Giovanni Aiello era “una persona valida, tipo un terrorista” e sempre “a disposizione della mafia anche per compiere omicidi”. Tra le accuse c’è anche quella secondo cui Aiello avrebbe fornito il telecomando per l’esplosivo utilizzato nel fallito attentato dell’Addaura nei confronti di Falcone (tra l’altro sventato proprio da Nino Agostino) e sarebbe stato presente in occasione dell’attentato al giudice Borsellino. Inoltre, Aiello avrebbe frequentato ripetutamente il Vicolo Pipitone, storico luogo di ritrovo di boss mafiosi e regno della famiglia dei Galatolo, dal quale partirono gli ordini per numerosi omicidi (tra i più importanti si ricordano quelli di Rocco Chinnici e Ninni Cassarà).

Ma cosa c’entra Antonio Agostino in tutto questo? E perché è stato ucciso in maniera così brutale? L’idea che il padre Vincenzo si è fatto in tutti questi 27 anni è che il movente principale dell’omicidio starebbe nel fatto che il figlio Antonio, sebbene fosse un semplice agente di polizia, si sarebbe interessato più volte di fatti di mafia e avrebbe tentato di scoprire e scovare i numerosi latitanti che in quegli anni risiedevano nel capoluogo siciliano. Lo stesso Antonio, tra l’altro, sarebbe stato visto più volte proprio nei pressi del Vicolo Pipitone, a dimostrazione del fatto che aveva capito fin troppo bene quel che avveniva da quelle parti. Inoltre, come detto in precedenza, sarebbe stato proprio il poliziotto a evitare che Falcone venisse ucciso durante la sua permanenza all’Addaura: sempre secondo le rivelazioni del boss Galatolo, infatti, Agostino avrebbe riconosciuto il cugino, Angelo, pronto ad azionare il telecomando e poi gettatosi in mare per paura di essere arrestato.

Quel che appare essere la trama di un romanzo poliziesco è, invece, una probabile realtà, soprattutto se si pensa che in occasione dei funerali di Agostino lo stesso Falcone ammise che il poliziotto gli aveva salvato la vita. Insomma, i punti oscuri nella vicenda dell’omicidio dell’agente di polizia sono tanti e tutto ciò comporta uno slittamento continuo verso la fine del caso e la scoperta della verità. Nonostante ciò, crediamo che 27 anni siano un periodo di tempo troppo grande, persino esagerato, e quel che la famiglia Agostino (il padre Vincenzo in primis) teme sin da quel maledetto giorno è che si giunga a un nulla di fatto.

Proprio la settimana scorsa, però, all’interno dell’aula bunker dell’Ucciardone di Palermo, c’è stata una svolta significativa: Vincenzo Agostino e Giovanni Aiello si sono visti, in un confronto face to face all’americana, per la prima volta da quella tragica giornata. L’emozione di Vincenzo, visibilmente commosso, non può essere spiegata a parole: confrontarsi di presenza con l’assassino del proprio figlio è qualcosa di atroce, abominevole e ci vuole tanto coraggio per affrontare una cosa simile. Di coraggio, Vincenzo, ne ha da vendere e non si è tirato indietro nel confermare ai giudici di riconoscere Giovanni Aiello tra le persone mostrate in aula (fra cui delle comparse appositamente truccate). Giovanni Aiello, noto a tutti come “faccia da mostro” per via di una cicatrice profonda che gli segna il volto, lo si riconoscerebbe “davanti a mille persone”.

Così, all’uscita del tribunale, Vincenzo Agostino conferma di esserci riuscito, di aver “visto immediatamente che era lui perché io quel volto, anche a 27 anni di distanza, non lo posso dimenticare”, quella faccia “è indimenticabile”. Infine, rivolgendosi ai presenti che hanno accompagnato e sostenuto lui, la moglie Augusta e la figlia Flora nel corso dell’incidente probatorio, ha dichiarato di essere “grato” per l’aiuto mostratogli, ma che “bisogna continuare a lottare per la verità e la giustizia”. Una lotta nel segno di quella barba bianca, una barba che Vincenzo non taglia dal 1989 e che non abbandonerà il suo volto fino al raggiungimento della verità.

Adesso, dopo 27 anni, l’indagine potrebbe intraprendere una via diversa e la soluzione finale appare non più così irraggiungibile. Per tale ragione, la Procura di Palermo ha chiesto al Gip altri 6 mesi per completare tutti gli accertamenti possibili. Nella speranza che la verità sull’omicidio di questo valoroso poliziotto palermitano, morto perché credeva nella giustizia e nella legalità, venga trovata. Una volta per tutte.

Giovambattista Dato -ilmegafono.org