Più di 200 mila morti e 10 milioni di profughi, di cui tre milioni emigrati negli stati confinanti. È il bilancio di tre anni di guerra civile in Siria, dove i recenti sviluppi legati all’avanzata del gruppo jihadista dello Stato islamico (Is) stanno costringendo altre centinaia di migliaia di persone a lasciare le proprie case. I riflettori in questo momento sono puntati su Kobane, città curda nel nord della Siria a poco più di un chilometro di distanza dal confine con la Turchia. Nella città, ormai, secondo il governo di Ankara, sarebbero rimaste solo le milizie dell’Ypg (Unità di protezione del popolo curdo) impegnate nella resistenza contro i jihadisti dello Stato islamico, una costola dell’opposizione islamista al regime del presidente siriano Bashar al Assad.
Quello che oggi viene chiamato Stato Islamico (conosciuto anche come Stato Islamico dell’Iraq e della Siria, Isis) è un’organizzazione di matrice qaedista guidata dall’iracheno Abu Bakr al Baghdadi, il cui obiettivo, a differenza di altri gruppi dell’opposizione siriana a Bashar al Assad, è istituire un proprio governo nei territori conquistati: il “califfato islamico” in Iraq e in Siria. L’Is si finanzia prevalentemente attraverso il contrabbando di petrolio, avendo preso il controllo di importanti siti petroliferi in Iraq e in Siria. La stessa Kobane, secondo alcuni analisti, potrebbe diventare uno snodo strategico per lo smercio di petrolio una volta caduta nelle mani dei seguaci di Al Baghdadi.
Da Kobane nelle scorse settimane sono fuggite “ufficialmente” più di 160 mila persone, ospitate dalla vicina Turchia, ma secondo stime non ufficiali, i profughi sarebbero molti di più. In tre anni di guerra la Turchia ha accolto 1,5 milioni di rifugiati dalla Siria, fornendo loro assistenza e protezione, e di questi solo una piccolissima parte è emigrata in Europa (secondo quanto rilevato dall’Onu, solo il 4 per cento dei siriani usciti dai confini nazionali è arrivato in Europa). La Turchia ha speso miliardi di dollari nella gestione dei rifugiati e per questo è stata più volte portata ad esempio dalla comunità internazionale, ma ora la posizione ambigua assunta dal governo di Ankara nei confronti dello Stato islamico rischia di macchiare indelebilmente la sua immagine, con effetti deleteri anche per la coesione sociale del paese.
Ankara ha scelto infatti di non intervenire a difesa dei curdi di Kobane, nonostante la città si trovi a pochi chilometri dai suoi carri armati schierati lungo il confine con la Siria. Questa scelta del governo turco, dettata da ragioni politiche interne, ha provocato un’ondata di proteste in tutte le regioni a maggioranza curda nel sud-est del paese, riaccendendo di fatto gli opposti estremismi all’interno dei confini nazionali. Le manifestazioni in molte regioni hanno visto infatti contrapporsi i militanti filocurdi vicini al Partito dei lavoratori del Kurdistan (Pkk) e quelli islamisti di Hezbollah, un’organizzazione sunnita che non ha alcun legame con l’omonimo partito sciita libanese.
“Ci sono ormai diverse fault line che si sovrappongono, curdi, islamisti e forze turche”, spiega Valeria Giannotta, docente della Türk Hava Kurumu Üniversitesi di Ankara, mentre nel frattempo al confine le forze turche continuano a ostacolare il flusso dei combattenti volontari curdi verso Kobane. La Turchia, in realtà, aggiunge la Giannotta, non è disposta a fare “concessioni” agli alleati del Partito dei lavoratori del Kurdistan in Siria, le forze Ypg, fornendo loro aiuti militari. “Se la Turchia fa delle concessioni al Pkk oggi – afferma la Giannotta – è probabile che in futuro il Pkk, considerato ancora un’organizzazione terroristica, chieda qualcosa di molto più rilevante”. La Turchia si trova quindi in una posizione di estrema difficoltà: da una parte subisce le pressioni internazionali perché invii truppe di terra a Kobane contro lo Stato islamico, dall’altra deve fare i conti con una situazione interna esplosiva.
G.L. -ilmegafono.org
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