Dal centro, dal sud, dal nord, dalle isole, dalle città marinare, da tutti i centri urbani e da tutte le oasi naturalistiche e dai luoghi di incantevole bellezza, minacciati dai cumulinembi di tempesta che i petrolieri e un governo irresponsabile stanno scatenando contro l’intero territorio italiano, sta avanzando un sentimento comune di rivolta per fermare il disastro. Il presidio del 15 e 16 ottobre a piazza Montecitorio, a Roma, organizzato dal forum dei movimenti dell’acqua pubblica e, fino a questo momento, da oltre duecento associazioni e comitati, è un forte segnale contro le scelte inaccettabili del governo e un chiaro richiamo al parlamento di impedire la distruzione delle preziose risorse del nostro paese. Al grido “Blocca lo sblocca Italia”, questa grande parte della comunità nazionale rivendica il diritto di perseguire una linea di sviluppo fondata sulle energie rinnovabili e non sulle energie fossili, difende l’aspirazione a vivere non tra la morchia, i veleni e le scorie dei pozzi petroliferi, ma in un ambiente che salvaguardi i beni naturali, gli straordinari paesaggi, i beni comuni.
È una richiesta perentoria che pretende la valorizzazione di un’agricoltura di qualità, la fruizione ecosostenibile delle attività economiche, la difesa del nostro mare, la estensione e il miglioramento del volano turistico. È il ripudio di una scelta di sviluppo che, come ha sostenuto recentemente l’economista americano Jeremy Rifkin, accusa l’Italia di puntare su politiche energetiche del secolo scorso, per favorire alcuni grandi compagnie e le loro utilities e, si può aggiungere, per consentire facili profitti a danno delle popolazioni e ottenere inconsistenti vantaggi energetici. È una grande battaglia che ha tempi stretti per estendersi. I cittadini di questo paese devono sapere che questo decreto governativo è un vero e proprio mostro giuridico. È un ritorno indietro, la sconfessione di ogni forma di partecipazione democratica e di costruzione armonica di un progetto di cambiamento.
All’attacco vandalico delle trivelle nelle aree marine e sulla terraferma, si aggiunge, come da tante parti è stato sottolineato, il via libera a un nuovo programma di inceneritori, a piani di cementificazione, a nuove scelte di privatizzazione dell’acqua che il referendum del 2011 aveva bocciato. Tutto questo togliendo a comuni e regioni e ai cittadini qualsiasi possibilità di partecipazione e di controllo, in totale dispregio delle direttive comunitarie (Seveso 2 e 3). Sotto il subdolo feticcio dell’efficienza, il presidente del consiglio Renzi ha scelto l’accentramento e lo svuotamento delle regole democratiche. Non si può stare a guardare, ma, con consapevolezza e lucida determinazione, si deve contribuire a creare un grande schieramento popolare. Credo che nessuno possa accettare di veder compromesso il proprio futuro e quello delle nuove generazioni per una perversa concezione di sviluppo.
Questa scelta è tanto più necessaria perché i parlamentari che sostengono la maggioranza non hanno sentito né il bisogno né il dovere di sollevare obiezioni o critiche al decreto, neanche sul rischio della deregulation petrolifera. Forse non hanno neanche la percezione di quanto sia grave la situazione. Bastano solo poche e documentate informazioni, che fra l’altro a più riprese sono state diffuse da Greenpeace, da Legambiente e da diverse associazioni, ma che risultano anche da un’attenta valutazione della aree geografiche individuate per il saccheggio gas-petrolifero. Consideriamo ad esempio l’area del canale di Sicilia.
Sotto il profilo delle risorse ittiche e dell’attività della pesca, da un documento elaborato nel 2010 per il parlamento europeo, la flotta peschereccia di quest’area marina, da Mazara del Vallo a Portopalo di Capo Passero, conta oltre 1300 imbarcazioni. Un naviglio in larga parte utilizzato per la pesca costiera (tra le 4 e le 7 miglia nautiche) e per almeno un terzo, costituito da pescherecci che operano in banchi di pesca, localizzati a 12 e 14 miglia. Questo settore, solo in quest’area marina, dà lavoro a circa 10.000 addetti, impiegati direttamente nelle attività della pesca, ad almeno 500 persone utilizzate nelle attività di trasformazione e ad oltre 1500 lavoratori impegnati nelle attività collegate (vendita, commercializzazione e servizi portuali). La Sicilia, come risulta dall’indagine, è una delle poche regioni ad avere un saldo attivo della bilancia commerciale per il pescato. Tutti i rilevamenti, compreso il piano di gestione locale delle risorse locali da Siracusa a Capo Passero, concordano sulla necessità di salvaguardare le importanti risorse ittiche esistenti senza alterare il delicato equilibrio dell’ecosistema marino.
Di tutto questo le richieste di autorizzazioni per nuove trivelle a mare (come l’Eni e la Shell) o le istanze per attività di prospezione in migliaia di km2 non tengono alcun conto e sottovalutano consapevolmente gli effetti deleteri sull’ambiente marino. Le nuove perforazioni, con l’inevitabile corollario di effetti collaterali, e il bombardamento massiccio dei fondali marini per l’individuazione di eventuali giacimenti potrebbero determinare uno sconvolgimento irreversibile dell’habitat e di un patrimonio vitale di biodiversità. È lo stesso pericolo che corrono tutti i mari italiani. Anche il limpido mare dell’isola di Pantelleria, che nel 2010 l’Onu ha sottratto all’assalto delle trivelle, viene coinvolto dalla forsennata ricerca di giacimenti che la società petrolifera australiana Audax, dopo il rigetto dell’istanza in Italia, ha dirottato nel mare tunisino ad appena 20 miglia di distanza, con un incessante bombardamento dei fondali che si ripercuoteranno anche sull’ecosistema di quell’area marina.
I petrolieri, attraverso gli esponenti dell’Assomineraria e delle maggiori società, dichiarano artificiosamente che le attività di ricerca ed estrazione di gas e petrolio potrebbero creare 15.000 posti di lavoro in tutta Italia, ma dimenticano che queste scelte rappresenterebbero solo in Sicilia la scomparsa di migliaia di posti di lavoro e la rovina di migliaia di famiglie. Sotto il profilo geologico la prospettiva è altrettanto angosciante. Il canale di Sicilia, come si rileva dagli studi dell’Istituto nazionale di geofisica, nella cosiddetta area del “plateau ibleo”, è attraversato dalle faglie tettoniche della grande fenditura ibleo-maltese. Queste faglie, dall’isola di Malta raggiungono il margine meridionale del Canale di Sicilia e, attraverso due linee parallele, interessano la fascia montuosa degli iblei e raggiungono l’area del mare Ionio al largo delle coste di Augusta e Catania (scarpata ibleo-maltese).
Come è noto, tale sistema di faglie è classificato a rischio sismico di alta intensità e ha prodotto storicamente i terremoti più devastanti della Sicilia. Questa zona “sismogenetica” nella costa meridionale coinvolge tutte le aree comprese tra Ragusa e Pachino. Inoltre, nella zona nord occidentale del Canale di Sicilia, da Gela fino a Pantelleria, dove si estende la linea di “collisione continentale tra la placca africana e quella euroasiatica”, è persistente la presenza di bocche vulcaniche sottomarine e di bacini magmatici.
La complessità geologica del sottosuolo del Canale di Sicilia non preoccupa però più di tanto le compagnie petrolifere, le quali tendono a considerare possibili eventi negativi come ininfluenti sulle attività di estrazione, negando così tutti i possibili disastri che potrebbero derivarne. No, non si può aspettare che vengano consentiti nuovi crimini ambientali e che venga messo a rischio il futuro delle popolazioni. Non servono pannicelli caldi ma decisioni immediate da assumere. L’intera marineria siciliana e quella delle altre aree, se vuole salvaguardare il suo futuro, ha il dovere di prendere posizione. Le popolazioni hanno il diritto e il dovere di rivendicare scelte diverse per un reale sviluppo sostenibile. La realtà impone percorsi alternativi e non vecchie e fallimentari logiche, volute da lobby e da voraci predatori.
Salvatore Perna -ilmegafono.org
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