Non è e non sarà mai un giorno qualunque. Non solo per via del ricordo, di quella memoria che è d’obbligo ritinteggiare per resistere ai troppi tentativi finalizzati a farla sbiadire, ma anche perché scandisce annualmente il tempo che ci separa da una verità che lotta per venire fuori. E prima o poi ci riuscirà, prima o poi sapremo. L’ho scritto tante volte che non amo troppo commemorare le date di morte, gli anniversari dell’uccisione di uomini che hanno lottato per il bene comune, per la libertà dei loro cittadini, conosciuti e sconosciuti. Preferirei celebrarne le date di nascita, i compleanni, perché hanno un duplice significato, più completo: l’avvento su questo mondo di persone di cui avevamo bisogno per cambiare in meglio qualcosa e, allo stesso tempo, l’assunzione di responsabilità per essercele lasciate portare via, nel modo più violento, nel mezzo di un isolamento che è quasi monotono nelle forme e nelle conseguenze.

Il 19 luglio, però, è una data che va celebrata e impressa nella nostra memoria, perché è un giorno che fa da spartiacque alla storia di questa nostra malconcia Repubblica. È la fase più acuta di una strategia che ha visto a fianco mafia e pezzi dello Stato che tramavano contro lo Stato, in una visione distorta e perversa della ragion nazionale. Paolo Borsellino andava fermato perché si stava avvicinando troppo alla verità, ai coinvolgimenti, alle connivenze, alle complicità di livelli più alti, quelli a cui Falcone si era già avvicinato prima di essere ammazzato. Erano andati troppo oltre, avrebbero potuto sgretolare equilibri di potere che erano stati costruiti con mattoni fatti di cospirazione, delitti, strette di mano perverse.

Paolo Borsellino aveva capito tutto. Aveva compreso perché il suo amico d’infanzia e collega, Falcone, era morto. Sapeva che presto sarebbe toccato anche a lui. Vengono i brividi a pensare ai cinquantasette giorni che separano le due stragi del 1992, al coraggio e alla professionalità di Borsellino, consapevole di essere già condannato a morte, ma ugualmente determinato ad andare avanti, a sacrificare se stesso, il tempo con i propri affetti più cari, a rinunciare ad andar via dalla sua Palermo per salvarsi la vita, o almeno per rendere più difficile l’esecuzione del suo assassinio. Fare il proprio dovere fino in fondo. Costi quel che costi. Senza pensare al proprio tornaconto, senza badare troppo al fatto che i frutti di quel lavoro non li potrai mai vedere personalmente.

Questo è il senso di giustizia, di speranza e di lotta di chi guarda avanti, lontano dal proprio egoismo, volgendosi al futuro, dettando l’esempio, tracciando la strada che altri potranno e dovranno seguire. Per tale ragione, per il rispetto a uomini di questo calibro, di tal generosità civile, oggi non possiamo arretrare di un passo, non possiamo permettere che prendano il sopravvento, dentro i palazzi della politica, dal Parlamento al Quirinale, così come in alcuni ambienti giudiziari, posizioni ambigue, incerte, che puntano a minimizzare, a chiudere un capitolo che rimane più che aperto.

Che si partecipi fisicamente al presidio e alle iniziative del 19 luglio o che si contestino in ogni situazione le bugie, le omissioni, i silenzi, gli editoriali pieni di malafede e le azioni di disturbo o di delegittimazione, abbiamo tutti l’obbligo di fare il nostro dovere. Fino in fondo. In qualsiasi modo. Fosse anche quello di parlarne ancora, di spiegare, di diffondere, di informare e di non dimenticare mai nomi, cognomi, complici e responsabili. Anche morali. E non mancare mai, anche se sembra una ripetizione ossessiva, di celebrare il 19 luglio 1992 e di difendere il gruppo di magistrati che sta cercando di fare giustizia e di donarci un po’ di verità, nonostante gli attacchi, i veleni, le accuse e i provvedimenti mirati a indebolirli.

In una democrazia sana, avrebbero la possibilità di lavorare in pace, fino alle loro conclusioni. In questa Italia coinvolta e oscura, invece, c’è chi prova a fermarli affinché il vaso non venga scoperchiato, rovesciando equilibri e sgretolando carriere o immagini costruite con troppa cura. Non dimenticare serve proprio a evitare che chi vuole fermare la verità possa farlo facilmente e a dare più forza a chi resiste e indaga ancora. Lo dobbiamo a Paolo Borsellino e anche agli agenti di polizia che scelsero di stargli accanto fino alla fine e di cui si parla sempre troppo poco: Eddie Walter Cosina, Vincenzo Li Muli, Agostino Catalano, Claudia Traina ed Emanuela Loi.

Massimiliano Perna –ilmegafono.org