Che sia l’inizio di un nuovo terremoto politico e sociale, questo non è ancora dato saperlo. Ce lo dirà il tempo e ce lo diranno le conclusioni delle inchieste attualmente in corso. Di sicuro, e non lo scopriamo oggi, la corruzione è il vero problema di questo Paese. È l’unico sistema che non ha mai conosciuto crisi, né cedimenti strutturali. Le sue fondamenta sono rimaste intatte, sono passate attraverso le manette di Tangentopoli, le indagini, le illustri dipartite, e sono ancora qui, probabilmente a sorridere nonostante gli arresti e le reti smascherate. Certo un’inchiesta ben fatta è un incidente, un fastidio, ma non è comunque la fine del mondo, perché il meccanismo è ben oliato e non si incepperà più di tanto.
Lo dimostra il fatto, ad esempio, che aziende sulle quali pendono sospetti o passati pronunciamenti o sulle quali la Direzione nazionale antimafia ha espresso perplessità e allarme, continuino ugualmente ad operare nell’ambito di importanti appalti come l’Expo o a chiedere persino adeguamenti al rialzo rispetto al contratto dell’appalto stesso. La corruzione in Italia è un virus endemico che non si riesce a debellare nemmeno con la repressione più dura. Il contatto costante tra politica, impresa, finanza, lobbies e organizzazioni criminali è il vero macigno sulle gambe di un’economia che non riesce a conoscere il tanto necessario e vitale sviluppo.
Una profonda riforma della legge sulla corruzione è più necessaria, ma principalmente quello che va attaccato è il sistema degli appalti, con una drastica riduzione delle procedure di urgenza, con l’eliminazione della possibilità di operare in deroga alla normativa, con una vigilanza strettissima sulle gare, sui ribassi, sui prezzi delle aggiudicazioni, sulla reale possibilità di concorrere liberamente alle stesse gare. Indubbiamente, ciò di cui questo Paese è deficitario sono sempre gli strumenti di controllo, reali, concreti, collegati a sanzioni dure ed effettive, ma soprattutto a meccanismi di accesso molto più rigidi, trasparenti e difficili da aggirare.
Il “daspo” di cui parla Renzi non è una risposta compiuta e rischia di essere uno slogan (per di più linguisticamente inesatto), perché un tema così vitale e delicato non si risolve con la sola repressione a posteriori, ma con la messa in campo di tutte quelle misure che devono scoraggiare a monte la corruzione, soprattutto per quel che riguarda le grandi opere e i grandi eventi. L’Expo e il Mose, infatti, sono i casi limite di un elenco di vergogne su cui la politica, per troppo tempo, ha taciuto, mentre nei territori c’erano attivisti, giornalisti, ambientalisti, cittadini che denunciavano, lanciavano l’allarme da anni. Tutto sacrificato nel nome del profitto, dell’evento o della struttura da realizzare. Il dissenso è stato silenziato e si tratta di un atteggiamento traversale che ha nascosto sistemi perversi altrettanto trasversali. Continuare a non prenderne coscienza sarebbe gravissimo.
Per tutti, non solo per questo o quel partito. Anche perché chissà cosa accadrebbe se dovesse uscire qualcos’altro anche su altre importanti opere, rispetto alle quali si è scelto a priori di non ragionare, di non ascoltare chi vi si oppone denunciando interessi poco chiari (si pensi soprattutto alla Tav in Val di Susa, ma anche al Muos in Sicilia). Non basta dire “che schifo”, dare la colpa ai soliti ladri o promettere provvedimenti entro poche ore. Perché questa non è una piaga che si può curare con azioni frettolose. Qui bisogna cominciare a guardarsi dentro, come politici e come cittadini, come nazione agli occhi del mondo e del nostro futuro. Ottima idea quella del comitato anticorruzione e soprattutto quella di affidarlo a un uomo integerrimo e competente come Raffaele Cantone (a patto che lo si doti di tutti gli strumenti necessari), ma il problema da affrontare è molto complesso e attiene a noi, alla nostra cultura popolare e politica.
Dobbiamo iniziare a fare vera autocritica, anche se gli errori non li abbiamo commessi noi personalmente. C’è una questione morale che non può essere delegata ai giudici, ma deve agire prima, al di là di sentenze e arresti, al di là di prove e di gradi di giudizio. Se un partito pensa di risolvere tutto semplicemente dicendo che un indagato o arrestato non è più un suo tesserato, dimenticando che in realtà non solo lo è, ma è anche stato il coordinatore della campagna elettorale di uno dei leader storici del partito, allora dimostra di non avere idea di quel che vuol dire “questione morale”. Va bene poi la presunzione di innocenza, ma su quali basi il sindaco di Torino ed esponente del Pd, Fassino, si permette di dire con assoluta certezza, di fronte alla pesantezza di accuse che sono in corso di accertamento, che Orsoni è una persona corretta e onesta? E perché mai il sindaco di Firenze, Nardella, sente il bisogno di esprimere pubblicamente solidarietà al collega veneziano?
Non sarebbe più prudente tacere e attendere, lasciando alla propria sfera privata certe convinzioni ed esternazioni? O quantomeno spiegare da dove facciano derivare la loro certezza assolutoria? L’atteggiamento corretto, invece, è quello di un altro esponente Pd, il primo cittadino di Bari, Emiliano, il quale sostiene che il partito debba denunciare ogni illecito, soprattutto all’interno dei propri enti. Detto questo, il vero problema da affrontare non riguarda tanto i singoli partiti, né semplicemente le procedure, ma costituisce soprattutto una questione culturale. La logica dell’aggiramento delle norme, del vantaggio da ottenere con qualsiasi mezzo, delle complicità, del sotterfugio, l’arroganza del potere e del denaro, insieme alla generale aspettativa di impunità, costruiscono il marchio di un nemico, la corruzione, che sembra impossibile da sconfiggere definitivamente.
Perché è come se si avesse sempre la sensazione che questo nemico, anche nel momento peggiore, possa riuscire comunque a trovare collaborazione, risorse, munizioni e protezione dalla gente che soggioga e soprattutto dai delatori e dai traditori dell’esercito che lo combatte. E che intanto, una volta smascherati, sarebbe il caso di estromettere dalle proprie fila in attesa che chiariscano, piuttosto che giurare sulla loro buonafede. O, peggio ancora, solidarizzarvi.
Massimiliano Perna –ilmegafono.org
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