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Da giovedì a sabato scorso ho avuto l’onore di essere ospite delle prime tre giornate del I Festival dell’impegno civile, organizzato dal Comune di Villanuova sul Clisi (Brescia), in collaborazione con la compagnia Teatro Belcan. Ci siamo ritrovati a parlare di mafia e antimafia sul Garda, tra le colline, l’acqua ferma del lago e le cime innevate all’orizzonte. Qualche anno fa non avrei mai detto che ci si potesse incontrare in un piccolo comune della provincia lombarda per discutere di clan, racket, appalti truccati, omertà, infiltrazioni. Non perché prima non esisteva la mafia al nord, tutt’altro, esisteva eccome, ma semplicemente perché prima ne parlavano in pochissimi. Molti meno di oggi.
Non avrei immaginato neanche che, nel cuore della provincia settentrionale, si dedicassero tre giorni a Pippo Fava, alla sua opera immensa, con la proiezione di un documentario sulla Sicilia di quarant’anni fa che testimoniasse, a distanza di tempo, come l’isola è cambiata, è andata avanti e ha prodotto, con un tragico tributo di sangue e immensa fatica, gli anticorpi necessari alla resistenza antimafiosa che, oggi, rende i siciliani più avanti nella lotta alla mafia, mentre buona parte del Paese sta ancora cominciando a comprendere di essere inesorabilmente penetrata sia dai colletti bianchi che, per dirla con Nando Dalla Chiesa, da un manipolo di ignoranti, rozzi e violenti che comandano nei bar e nelle strade e controllano il territorio.
Ho scoperto l’esistenza di attivisti, persone preparate, gente che in solitudine continua costantemente, ogni giorno, a diffondere cultura della legalità, a informare, a denunciare. Nel bresciano, ossia in una zona nella quale la gran parte dei cittadini pensa di essere immune alle infiltrazioni mafiose, nonostante una delle operazioni antimafia più grosse risalga al 2001.
Sembrava impossibile immaginarlo, eppure è successo, grazie alla disponibilità e alla rara sensibilità del sindaco di Villanuova sul Clisi, Ermanno Comincioli. E grazie all’impegno e alla raffinata creatività della compagnia teatrale Belcan di Michele Beltrami e Paola Cannizzaro, che a Pippo Fava hanno dedicato uno splendido spettacolo, che speriamo possa girare l’Italia. Uno spettacolo che, sabato mattina, anche i ragazzi delle scuole medie e superiori presenti a teatro hanno seguito con grandissima attenzione, così come hanno fatto con il dibattito successivo.
Mentre sul palco andava in scena il pensiero di Fava, ho provato a immedesimarmi in quei ragazzi così piccoli, ho immaginato che si stessero chiedendo “cosa ci facciamo noi qui a parlare di cose lontane storicamente e geograficamente, cose che non ci riguardano da vicino?”. La risposta è stata semplice, ai relatori è bastato poco per far capire, con esempi concreti e vicini, il perché la mafia riguarda tutti noi, in ogni angolo di questo Paese e l’attualità del messaggio di Fava.
Poi, mi è venuto d’improvviso un altro pensiero. Ho posto una domanda, rivolta anche a me stesso, a voce alta. Mi sono chiesto se le figure come Fava, Siani, Falcone, Borsellino e le tantissime altre persone cadute nella lotta alla mafia, vengano considerate vincenti o perdenti dai più giovani. I modelli che film e fiction forniscono, infatti, in generale presentano il vincente come colui che spara, che uccide, che risolve tutto con la violenza delle azioni, mentre il perdente è colui che soccombe, muore, viene cancellato in un attimo.
Per le fiction che parlano di mafia, poi, questo modello è ancora più evidente. E preoccupante. Perché genera nei più giovani, soprattutto se impreparati in materia, un’idea distorta della mafia. In prodotti diseducativi e orrendi come ad esempio “Il capo dei capi”, l’immagine dei boss mafiosi è quella romanzata del potere assoluto, della ricchezza, della invincibilità, fermata solo da un arresto e da una galera che non spezzano il potere, anzi ne costituiscono un incidente previsto. Messo in conto. Quello che emerge è il netto successo ai danni di chi invece ha provato a opporsi, che con la morte violenta perde la sfida, segna la sua sconfitta.
Guardando quei ragazzi, in provincia di Brescia, che sono la rappresentazione di tanti altri ragazzi di altri luoghi d’Italia, i quali hanno subito il bombardamento di pessime fiction che purtroppo hanno avuto successo, mi sono sentito in dovere di condividere un pensiero che spesso non trova d’accordo gli interlocutori: vale a dire il rovesciamento di prospettiva. Il boss mafioso è un perdente. Vince qualche battaglia ma perde la guerra. Il mafioso affiliato, il piccolo boss, il killer, la manovalanza sono ancora più perdenti. Vivono senza potersi mai fidare di qualcuno che non siano loro stessi, vivono nascosti, perennemente in fuga, a scappare dalle fogne come ha fatto il camorrista Setola (poi acciuffato per fortuna), a vivere nelle masserie, dentro tuguri, come capre, come animali, sporchi, maleodoranti, mangiando formaggio con i vermi perché per qualche giorno non è stato possibile portare la razione di cibo.
Vivono nell’odio e nella violenza. Non riposano mai. Non hanno rapporti familiari veri, di assoluta fiducia, perché uno dei primi principi dell’essere mafioso è la disponibilità a uccidere anche il proprio fratello, il padre, il figlio, chiunque si ritenga necessario far fuori. Si vive ubriachi di potere e si finisce solo in tre modi: latitanti (fino all’arresto), in galera o ammazzati. Della propria vita rimangono poche tracce: la fedina penale e la violenza. Vorrei sapere chi ricorda ogni giorno il nome di un mafioso ucciso venti anni fa. Credo nessuno. O pochi. I più informati.
Noi, invece, abbiamo trascorso una mattina intera in un teatro ad ascoltare le parole che Fava aveva scritto quarant’anni fa o detto trent’anni fa. Lo abbiamo ricordato. Ne cogliamo il messaggio, il suggerimento, viviamo meglio grazie alle sue parole, sentiamo il suo messaggio pulsare dentro di noi e ciascuno di noi lo porta con sé ogni giorno. Il ragazzino sveglio e intelligente, ad esempio, che mi è venuto incontro alla fine del dibattito per raccontarmi quello che pensa e il modo nel quale mette in pratica gli insegnamenti educativi e culturali nella sua esperienza di vita sociale, a scuola o con il gruppo di amici, è la più grande testimonianza di vittoria di coloro che sono morti per il loro impegno civile.
Quel ragazzo porterà con sé le idee di Fava, le ripasserà a mente quando dovrà affrontare determinate situazioni. Magari agirà di conseguenza. Quello spettacolo e quel dibattito hanno incontrato la sua sensibilità che si muterà in forza.
La vittoria sta tutta qui, nella straordinaria capacità di chi ha combattuto pensando di sfidare la mafia durante il tempo concesso alla vita mortale, ma nella convinzione profonda di riuscire a batterla nel tempo immateriale e immortale del pensiero e dell’esempio che nasce dal voler compiere il proprio dovere, ogni giorno, costi quel che costi.
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