Nell’apprendere una notizia di giudiziaria relativa a una condanna, a volte può anche capitarti di piangere o comunque di commuoverti. Non per piglio giustizialista o per sete di vendetta, ma perché quella condanna è la consegna definitiva di giustizia a qualcuno che ha lottato tanto per ottenerla e che oggi, con la sua dolcezza, sarebbe soddisfatta, ma senza arroganza, senza esultanze scomposte. Mi è capitato questo, il giorno in cui ho saputo della condanna a 16 anni di reclusione inflitta all’ultimo dei quattro assassini di Pierantonio Sandri. Pierantonio era solo un giovane diciottenne che, all’improvviso, scomparve dal suo paese, Niscemi, nel cuore della Sicilia. Di lui nessuna traccia, ma la certezza che non si trattasse di una fuga volontaria.

Ma chi e perché avrebbe rapito questo giovane incensurato appena diplomatosi come odontotecnico? Il mistero era fitto e a Niscemi nessuno sapeva dare notizie. Un altro caso di scomparsa destinato probabilmente a finire nell’oblio, nel freddo elenco di persone sparite nel nulla. Se non fosse stato per una donna, esile e dolce, ma estremamente forte e coraggiosa: Ninetta Burgio, la madre di Pierantonio. Dal momento della scomparsa del figlio, iniziò una lunga battaglia per la verità, per scoprire cosa fosse accaduto. Non si è mai risparmiata Ninetta, continuava con i suoi appelli rivolti a chi sapeva qualcosa e non parlava.

Una “mamma coraggio” che con la sua dolce determinazione, mai assetata di vendetta ma desiderosa soltanto di giustizia, riuscì a colpire la coscienza rimordente di uno degli assassini del figlio, nonché ex alunno della stessa Ninetta, Giuliano Chiavetta, il quale decide di raccontare la verità, svelando nei dettagli l’omicidio e facendo i nomi dei complici. Così, nel 2009, ben quattordici anni dopo la sua morte, i resti di Pierantonio vennero ritrovati nel bosco di Niscemi, sepolti a malapena. Era stato torturato, strozzato e lapidato.

Una morte atroce. La sua colpa? Aver visto un gruppo di giovanissimi “picciotti”, tra cui il nipote del boss Alfredo Campisi, dare fuoco a un’autovettura, compiere un attentato legato al racket. Ucciso, dunque, per aver visto troppo e per timore che potesse denunciare. Lui, figlio di chi gli aveva saputo dare valori importanti, in un comune e una provincia che erano vessati da una mafia sanguinaria, che inquinava perfino le istituzioni. Da quel momento e per tutta la durata del processo, Ninetta non ha mai interrotto la sua attività di educazione alla legalità, di testimonianza, portando il proprio messaggio di amore e giustizia in tutta Italia, nelle scuole come nelle carceri minorili.

Ho avuto la fortuna di incontrarla e conoscerla, durante una fiaccolata antiracket a Siracusa. Era insieme a don Ciotti e ci trovammo a chiacchierare prima della partenza del corteo e poi al termine, in una chiesa di periferia, dove un incontro con gli studenti avrebbe concluso la manifestazione. La prima cosa che mi mostrò fu la foto di Pierantonio. Parlammo a lungo, mi colpirono la gentilezza e il sorriso che ricordavano il dolore ma non conoscevano la resa. Si commosse mentre parlavamo, avrei voluto abbracciarla ma mi bastava il fatto che mi stringesse la mano con la sua mano sinistra, mentre nella destra teneva ferma l’immagine di suo figlio.

Mi raccontò di lui e mi parlò dei giovani, dell’importanza di educarli alla memoria, alla denuncia e alla speranza. Non affrontammo il tema del processo, nel quale Ninetta, il fratello e l’associazione Libera si sono costituiti parte civile. Gli autori di quel delitto furono Marcello Campisi ,Vincenzo Pisano, Giuliano Chiavetta e Salvatore Cancilleri. Tutti condannati. Campisi, Pisano e ovviamente Chiavetta (colui che per primo ha raccontato tutto) hanno confessato. Cancilleri è l’unico che continua a dichiararsi innocente. Anche per lui adesso è arrivata la condanna in appello: 16 anni di reclusione.

La giustizia si mostra inflessibile questa volta, per fortuna. E allora capita che le lacrime scendano sole, al pensiero e al ricordo di Ninetta, scomparsa nel 2011, alla sua lunga lotta per la verità, al suo esempio coraggioso, alle sue parole di speranza. Che conservo ancora dentro di me.

Massimiliano Perna –ilmegafono.org