Il 21 agosto scorso le agenzie stampa di tutto il mondo diffondono una notizia scioccante: 1400 civili morti in Siria, tra cui donne e bambini. Pochi giorni fa, l’ONU conferma che è stato un attacco del governo di Assad, che ha fatto uso di armi chimiche: il gas Sarin. La crisi siriana, già al centro della politica mondiale da molte settimane, ha così scomodato i capi di Stato di tutte le nazioni e stuzzicato gli equilibri diplomatici mondiali per via dell’ipotesi di un intervento americano. Che in una guerra vi sia sempre chi ha grandi interessi economici, oltre che politici, non è una novità e non è una novità che vi sia anche chi specula solo sull’idea della guerra. Negli anni passati hanno fatto discutere molto le motivazioni di sicurezza internazionale che avevano mosso gli interventi in Iraq e in Libia, in quanto paesi molto ricchi in termini energetici. La situazione della Siria ci pone davanti uno scenario tendenzialmente divergente, sia in termini di prosperità che di strategia.
Iniziamo con il dire che la Siria non è un paese ricco. Ha circa 20 milioni di abitanti. Secondo la Energy information administration americana (Eia), a gennaio 2013 la Repubblica Araba di Siria produceva solo 150 mila barili al giorno di petrolio, quando Iraq e Iran ne sfornavano oltre 3 milioni ciascuno. Bazzecole in termini energetici visti gli standard dei suoi vicini. Allora perché tutte queste attenzioni, per giunta quando il conflitto tra ribelli e governo è una questione di politica interna? Domanda che non trova motivazioni ciniche finché non si considera la sua posizione strategica in termini di geografia energetica.
Nell’estate del 2009, il presidente Bashar al-Assad annuncia la strategia dei Quattro Mari, ovvero valorizzare la collocazione geografica e geopolitica della Siria come potenziale snodo delle rotte energetiche lungo una direttrice Sud-Nord ed Est-Ovest. Un intreccio di gasdotti ricompresi tra Mar Caspio, Mar Nero, Mediterraneo e Golfo Persico. Gli attori in causa sono il grande cliente di gas Unione Europea, poi Iran, Russia e Qatar, dove sono di base dei bombardieri B-1 americani e i famosi Droni che sorvolano la Siria.
Proprio il Qatar, terzo produttore mondiale di gas naturale al mondo, dopo Russia e Iran, ha sempre subito il veto di Mosca, tramite al-Assad, sulla costruzione di un gasdotto passante per la Siria che porti energia in Europa. Questo per la rotta Sud-Nord, mentre con l’Iran dell’allora presidente Mahmud Ahmadinejad e con il vicino Iraq, si parlava del “gasdotto dell’amicizia islamica”. Un gasdotto di 6000 chilometri pronto a rifornire l’Europa con 110 milioni di metri cubi di gas al giorno, ha annunciato nel 2011 il vice-ministro iraniano del petrolio Javad Oji. Il progetto dei Quattro Mari del 2009, e veniamo al dunque, poteva cambiare gli equilibri mondiali di buona parte dell’export di gregge e gas naturale. Inutile dire che il piano, già molto criticato e spesso vittima di sabotaggi, si è dovuto fermare per via della insidiosa guerra civile che attanaglia la Siria da ormai due anni seminando 110.000 vittime secondo le stime delle Nazioni Unite.
Andando oltre gli interessi strategici di lungo periodo, tra i tanti a trarre profitto da una guerra vi sono le aziende del carburante, le quali hanno ampi margini di speculazione sull’incertezza che l’ombra di un conflitto pone nei confronti del prezzo del petrolio. Nel mese di agosto, i prezzi sia del Brent che del Wti (due tipi di petrolio che fungono da indicatore dei prezzi mondiali) sono sensibilmente aumentati toccando il massimo il 28 agosto (116 dollari/barile e 114 dollari/barile). Cifre che non si vedevano da due anni a questa parte. Tutto questo a discapito del consumatore che ha visto al ritorno dalle vacanze estive l’ennesimo rincaro di benzina gravare sulle sue spese.
”Sempre rimane il dubbio se questa guerra di qua o di là è davvero una guerra o è una guerra commerciale per vendere queste armi, o è per incrementarne il commercio illegale?” Sono queste le recenti parole del Papa sulla produzione di armi. L’intervento del pontefice è stato più che opportuno, in quanto sono proprio gli appassionati al genere, le imprese che di guerra vivono, a trarne i profitti più alti in termini monetari. Elencare tutte le aziende che riforniscono la spesa militare americana sarebbe una follia, ma interessante è la statistica fornita dallo Stockholm International Peace Research Institute (Sipri). Nel solo 2011, i ricavi delle prime 100 società si sono attestati a circa 410 miliardi di dollari, la metà dei quali registrati solo dalle prime dieci realtà del settore. Tra queste dieci aziende, oltre a Lookhead Martin (quella dello scandalo negli anni Settanta) e Boeing, spunta anche l’italiana Finmeccanica.
Un pensiero va rivolto anche agli speculatori della finanza moderna, non investitori istituzionali ma singoli fondi che fanno del trading ad alta velocità il loro pane quotidiano. Per loro la guerra non è per forza necessaria, basta del caos in Medio Oriente per portare sulle montagne russe un titolo azionario. Difatti, mentre i prezzi dei titoli energetici erano in rialzo, gli indici europei temevano l’intervento di Obama e andavano in rosso.
Tutte queste vicende ci dovrebbero dare un po’ di materiale per interpretare meglio quelli che sono gli intrecci relazionali ed economici alla base della crisi di Damasco e sgonfiare quegli intenti morali, come li ha chiamati il segretario di Stato americano, John Kerry, e che potevano fungere da velo bianco per l’ennesimo war game marchiato yankee. Nel 1832, il generale Carl Von Clausewitz, in un suo famoso trattato sulla guerra, affermava che un conflitto bellico non era altro che la continuazione della politica con altri mezzi. Sempre nel diciannovesimo secolo, un intellettuale francese suo contemporaneo, Benjamin Constant, diceva che nel mondo moderno le guerre sarebbero divenute superflue per via del commercio. Nel guardare la scena siriana verrebbe quasi da dire che siamo dinanzi alla continuazione di politiche commerciali con altri mezzi.
Italo Angelo Petrone –ilmegafono.org
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