Lasciamo da parte ogni infantile illusione: è innegabile che al giorno d’oggi tutto è mosso dalla logica del profitto, da un’esasperata attenzione al guadagno (in genere di pochi a discapito dei più) che spesso finisce con il compromettere altri beni decisamente più importanti. Eppure a tutto c’è (o ci dovrebbe essere ) un limite, perché sarebbe necessario che quanto meno i beni più essenziali, quali la salute e la vita stessa, prevalessero sulle questioni meramente economiche. Non è più accettabile che i registratori di cassa di imprenditori senza scrupoli suonino a morto per operai e cittadini. Eppure è proprio questo che continua ad accadere a Taranto, malgrado ormai la gravità della situazione sia nota a tutti, anche a chi per decenni ha fatto finta di non sapere cosa accadesse nella città pugliese.

Tra i più “distratti” o “confusi” sulla situazione, Romano Prodi, il quale, nel tentativo di difendere la gestione dell’Ilva anteriore a quella dei Riva (il periodo delle partecipazioni statali), ha dichiarato: “Era un bello stabilimento, tra l’altro isolato dalla città. È stata la città ad andare addosso all’Ilva, non l’Ilva addosso alla città”. “Quando andavamo allo stabilimento – ha aggiunto – percorrevamo chilometri e non c’era una casa. Se la gente non fosse andata ad abitare lì, così addosso all’acciaieria,  forse non sarebbe stata così aggredita dall’inquinamento”. Se l’ex premier, anziché fare affidamento sulla propria memoria (che si è rivelata poco affidabile), avesse preventivamente consultato il catasto cittadino, avrebbe appreso che le case di via Lisippo (quelle più vicine allo stabilimento, per intenderci ad appena 135 metri) sono state costruite nel 1956, 4 anni prima dell’acciaieria.

Lasciando da parte confusioni e dichiarazioni discutibili (poiché è davvero una scelta poco apprezzabile cercare di far cadere le responsabilità del disastro ambientale sulle vittime dello stesso), la situazione ad oggi sembra essere ancora ferma se non addirittura peggiorata rispetto all’anno scorso, quando è finalmente scoppiato il caso Ilva. Quella appena trascorsa è stata una settimana molto densa di avvenimenti: la Corte di Cassazione ha confermato la custodia cautelare ai domiciliari per Emilio e Nicola Riva e per Luigi Capogrosso, ex direttore dello stabilimento; inoltre sono state annunciate le dimissioni dei vertici del Cda dello stabilimento: Bruno Ferrante, Enrico Bondi e Giuseppe De Iure.

A causare la decisione dei tre dirigenti di dimettersi è stato il sequestro di beni della Rivafire, la società controllante l’acciaieria, per un valore di oltre 8 miliardi di euro, disposto lo scorso 24 maggio dal gip di Taranto. Scopo del maxi sequestro è  assicurarsi le risorse per garantire la bonifica delle aree inquinate. Malgrado il procuratore, Franco Sebastio, abbia precisato che materie prime, prodotti e impianti non saranno interessati dal sequestro e che, dunque, quest’ultimo non inciderà in alcun modo sulla produttività dello stabilimento, è subito partita la macchina del “ricatto occupazionale”.

Se il Cda, nel comunicare l’intenzione di impugnare il sequestro, ha parlato di “possibili ripercussioni occupazionali per circa 20mila dipendenti” e la famiglia Riva ha sottolineato la condizione di rischio per “la continuità aziendale”, ancora più catastrofico si è rivelato il sindacalista Maurizio Landini: “In ballo ci sono 40mila posti” (eppure, secondo i calcoli pubblicati da Il Fatto Quotidiano, i posti di lavoro potenzialmente a rischio sarebbero meno della metà). I recenti avvenimenti hanno inevitabilmente comportato un interessamento da parte del mondo politico.

Durante la settimana si è svolto  un vertice tra governo, azienda ed enti locali, presso il ministero dello Sviluppo economico, dal quale sembra sia emersa la volontà di sottoporre l’Ilva a un commissariamento finalizzato a conservare la produttività dell’impianto nel pieno rispetto delle prescrizioni Aia e della tutela ambientale. Purtroppo, però, mentre i nostri governanti continuano a discutere e a cercare soluzioni per preservare la produttività dell’acciaieria, essa continua ad inquinare e a diffondere morte e malattie.

Lunedì scorso, Taranto si è svegliata con il cielo arancione: purtroppo non si trattava dell’alba, non era il sole che sorgendo colorava il cielo della città, ma era un molto meno poetico fenomeno di sloping:  una nube di polveri rosse (con ogni probabilità molto inquinanti) sprigionata ancora una volta dallo stabilimento.

Anna Serrapelle- ilmegafono.org