Premetto e preciso che quando ho appreso la notizia della sua morte non ho assolutamente festeggiato, ma ho solo istintivamente detto “finalmente”. Così, senza sorrisi o allegria, ma solo come semplice constatazione della fine di una presenza eccessivamente longeva e ingombrante anche psicologicamente. E ho sperato che subito non iniziasse il recupero, non cominciasse il gioco a nascondino con la realtà, il valzer funesto delle commemorazioni, dei messaggi di cordoglio, dei discorsi sui funerali di Stato (che per fortuna ci siamo risparmiati), quello stesso Stato che Giulio Andreotti ha tradito pur di non rinunciare al potere, per paura di logorare la sua vanità.

Ma festeggiare non ha senso, se a morire non è un dittatore, ma un uomo di potere che in quel potere è stato piazzato democraticamente dal popolo, dal suo popolo che per anni gli ha leccato i piedi, lasciandolo governare in cambio di un po’ di pane per tutti, masse di cittadini italiani che ridevano a ogni sua battuta, che magari ammettevano le ombre ma poi le minimizzavano, recitando come un rosario che “Andreotti però è un uomo intelligente, un grande statista, avrà le sue magagne come tutti, ma almeno è più capace, è meglio degli altri”. Giulio, il Divo. Lo sostenevano, lo votavano nel segreto dell’urna, salvo poi dire pubblicamente che mai lo avevano fatto.

Ecco, a caldo mi è venuto da pensare a loro, a quelle generazioni attraversate dal mito di Andreotti, affascinate dalla sua abilità politica di uomo delle trame, di complottista segreto, di un segreto immenso che ha costruito in gran parte con le sue mani, anzi con le mani di altri, che lui a mantenere i vestiti puliti ci teneva. Posso capire i più giovani, il loro entusiasmo ingenuo, la voglia di “festa” in questo clima nel quale, quando ogni statua abbattuta dal tempo prima che dal voto viene giù dalla facciata del castello del vecchio sistema, scrosciano gli applausi e ci si sente come davanti all’imminente cambiamento. Purtroppo non è così, non cambia nulla se muore Andreotti. Non cambierebbe nemmeno se morisse Berlusconi. Perché il loro virus ha infettato il tessuto sociale e politico di questo Paese. E per liberarsene bisogna lottare, destrutturare pezzo per pezzo il sistema. I meno giovani invece non li capisco.

Abbiamo vissuto e (mi rivolgo alle generazioni precedenti) avete vissuto diversi momenti di passaggio e Andreotti ne è stato protagonista. Sempre. C’è chi lo ha combattuto, ma c’è anche chi ha lasciato fare agli altri, ha delegato il proprio impegno e il proprio dissenso. Abbiamo lasciato (come Paese nel suo insieme) che i magistrati che indagavano su di lui fossero esposti a un isolamento feroce, abbiamo consentito che il suo potere si propagasse sempre di più. A denunciare i suoi misteri sono stati quei pochi (giornalisti, avversari, magistrati, oppositori di partito) a cui ci siamo affidati, a cui abbiamo affidato la nostra speranza. Ma poi nel buco nero delle scelte elettorali il nostro dissenso è crepato, glorificando l’immortalità del Divo. Non abbiamo ascoltato abbastanza. E chi ascoltava finiva per danzare lentamente, come in preda alle note di un fachiro. Andreotti è il simbolo dell’Italia, di quella che tutti vediamo.

L’Italia dell’uomo potente, magari con un po’ più di humour nelle parole e negli atteggiamenti (anche se nessuna battuta spezzava il suo grigiore studiato), discusso o addirittura colpevole, coinvolto nei principali misteri italiani, di cui ha seguito il corso, dagli albori della Repubblica, eppure accettato, amato, mai davvero scalfito dalla satira, che lo assumeva a bersaglio preferito, ma spesso finiva con ironizzare principalmente sul difetto fisico, sulla gobba e sulla postura ricurva. Eppure si poteva combattere di più e meglio, se questo Stato avesse avuto al suo interno più uomini disposti a fare il proprio dovere accanto a chi ci è morto per quel dovere. Avremmo avuto un’eredità migliore. Quella che ci manca. Perché oggi cambiano i protagonisti (non sempre), le cifre linguistiche, i valori, ma il “modello Andreotti” vive ancora, sopravvive al suo stesso ideatore.

Il sistema di gestione delle istituzioni, dei segreti, delle dinamiche tortuose, dei rapporti non ha mai smesso di seguire la linea tracciata da lui. Ecco perché non ci sarebbe stato nulla di male se avessero celebrato i funerali di Stato. Perché di questo Stato, Andreotti è ancora il simbolo, lo scrigno che contiene tutto, l’enciclopedia che ospita ogni singolo rigo della storia repubblicana e dei suoi tristi compleanni. Quel che non avrebbe senso in questa Italia, quella del governissimo Letta-Alfano, di Giorgio Napolitano, dei magistrati antimafia minacciati e lasciati ancora una volta soli, dei silenzi lunghissimi, della legge elettorale antidemocratica, della trattativa Stato-mafia e del velo di omissioni e segreti che la avvolgono, sarebbe stato fare i funerali di Stato per Agnese Borsellino o per l’appuntato dei carabinieri Tiziano Della Ratta o per una delle tante vittime di incidenti sul lavoro. Non avrebbe alcun senso. Di loro e di ciò che rappresentano, lo Stato vuole dimenticarsi.

D’altra parte, abbiamo dovuto aspettare sessantaquattro anni per poter onorare Placido Rizzotto, il sindacalista ucciso dalla mafia, in Sicilia, nel 1948. Andreotti c’era già. E c’era già la Dc, c’erano Giuseppe Genco Russo, Michele Navarra, Calogero Vizzini e Bernardo Mattarella. Il gotha della mafia siciliana. I grandi elettori (e qualcuno anche eletto) della Dc siciliana del tempo. Oggi non c’è più nessuno. Non c’è nemmeno Giulio Andreotti. Rimangono i segreti, finiti con lui sotto terra. Rimane anche il vizio degli italiani e dei loro mass media. Mi sarebbe piaciuto leggere, nei catenacci o negli occhielli delle aperture dei principali quotidiani, al posto della frase “fu inquisito per mafia”, la frase “fu riconosciuto colpevole (e dunque mafioso) ma prescritto”. Mi accontenterei anche di un “assolto per prescrizione”. Ma siamo in Italia, la terra del Divo. E si sa, quando i divi muoiono tutto diventa leggenda e si scioglie in essa. Anche i fatti veri. Anche le verità.

Massimiliano Perna –ilmegafono.org