Il 19 marzo di diciannove anni fa veniva ucciso a Casal di Principe don Peppe Diana, il prete anti-camorra noto per le sue battaglie che lo hanno contraddistinto in tutti gli anni di sacerdozio. La storia di don Peppe ormai è ben nota a molti, ma per lungo tempo l’Italia ha ignorato la figura di questo grande uomo. Proprio per tale motivo la sua storia non deve essere dimenticata, posta nell’oblio, ma al contrario merita di essere ricordata ed onorata. In occasione dell’anniversario della sua morte, martedì scorso, un popoloso corteo ha percorso le strade del comune campano per dimostrare, ancora una volta, come le sue parole non siano state vane.
Al corteo, infatti, hanno partecipato bambini e ragazzi di numerose scuole, ma anche diverse associazioni, tra cui Libera di don Ciotti, e diverse persone che hanno conosciuto da vicino la violenza della criminalità organizzata. L’amore che la gente del luogo (e non solo) prova per questo prete ucciso dalla camorra ha un’origine ben particolare. Fu lui, infatti, che insieme a don Pino Puglisi mostrò, tra gli anni Ottanta e i Novanta, il lato migliore e puro della Chiesa come istituzione volta all’educazione dell’essere umano e alla sua liberazione secondo i principi della fede. Uno in Sicilia, l’altro in Campania: due terre entrambe martoriate dalla mafia e per questo sempre più vulnerabili, sempre più scosse da un potere ingiusto e mortale.
Don Peppe Diana incomincia a fare dell’anticamorra un vero e proprio compito di fede e di onestà umana sin dai primi anni di sacerdozio, rivolgendosi soprattutto alle persone colpite dalla prepotenza della camorra, in quegli anni comandata dal terribile boss Francesco Schiavone, detto Sandokan. Ma ciò che fece di lui un vero e proprio nemico della criminalità furono senz’altro le parole cariche di rabbia e di distacco proferite nei confronti della camorra. Parole che erano come delle armi affilate, squarciavano il silenzio imposto dall’omertà e dal terrore dei casalesi, tagliavano a fette quel “credo” criminale ormai vigente da anni nei territori campani. Le sue erano parole che centravano punti ben precisi e che non potevano lasciare indifferenti i boss.
Roberto Saviano ha dedicato un capitolo del suo libro Gomorra proprio a don Peppe Diana ed ha raccolto alcuni dei momenti più cruciali nella lotta alla criminalità da lui svolta, permettendo così all’Italia intera di conoscere la storia di coraggio e dolore di questo giovane prete campano. Tra tutti, sono due i concetti che più stavano a cuore a don Peppe e che con più forza egli ha cercato di sezionare e di riportare alla vera origine: la fede e la famiglia. Per i clan, infatti, la fede cristiana è un elemento importante, che non deve mai mancare, ma che ha un senso esclusivamente simbolico e formale.
Come mai potrebbe, infatti, questa fede, andare d’accordo con una vocazione sanguinaria e mortale? Proprio per questo, racconta Saviano, “don Peppino iniziò a mettere in dubbio la fede cristiana dei boss, a negare esplicitamente che ci potesse essere alleanza fra credo cristiano e potere imprenditoriale, militare e politico dei clan”. E la famiglia? Ancora Saviano, riprendendo le parole di don Diana, dice che “la camorra chiama famiglia un clan organizzato per scopi delittuosi, in cui è legge la fedeltà assoluta, è esclusa qualunque espressione di autonomia, è considerata tradimento, degna di morte, non solo la defezione, ma anche la conversione all’onestà”.
Per un cristiano, invece, per famiglia si intende “soltanto un insieme di persone unite tra loro da una comunione di amore, in cui l’amore è servizio disinteressato e premuroso”. Ma se c’è un momento cruciale in cui il prete di Casal di Principe ha dato uno scossone ai precetti camorristici è sicuramente la lettera intitolata Per amore del mio popolo non tacerò, scritta da lui e diffusa in tutte le parrocchie del paese il giorno di Natale del 1991.
Si tratta di una lettera (la trovate in giro per il web oltre che nel libro Gomorra) che unisce concetti cristiani e al tempo stesso attacchi alla camorra, ai suoi modi di fare, alla prepotenza con cui, recitando un pezzo della lettera stessa, “impone le sue leggi e tenta di diventare componente endemica nella società campana”. Il testo di Don Diana è uno scritto che ha carattere religioso, politico, sociale, ma soprattutto umano. Uno scritto che fa riflettere, perché contiene al proprio interno le difficoltà del vivere in un luogo abbandonato dallo Stato, la fede inossidabile di un uomo, la voglia e il desiderio di dire basta ad una vita che sin dal principio è posta nelle mani di terzi.
È per questo che ogni 19 marzo, a Casal di Principe, la gente scende in piazza per ricordare il prete ucciso dalla camorra. Per ricordare un uomo coraggioso, un uomo che ha dato la propria vita perché credeva in un’esistenza libera da ogni ingiustizia e da ogni prepotenza. Non dimentichiamocene mai. Al contrario, le sue parole siano la nostra forza, la forza di cui abbiamo bisogno per combattere un male tuttora presente.
Giovambattista Dato -ilmegafono.org
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