Venti anni sono meno di una parentesi nella storia dell’umanità, un periodo spesso impercettibile, ostico rispetto a qualsiasi forma compiuta di analisi, perché manca l’insieme entro cui si vanno a incastonare gli avvenimenti, i fatti, i collegamenti con un passato che ha radici temporali profonde. Per gli storici si tratta di una semplice tessera di un mosaico enorme. Per i cittadini di uno Stato,  una comunità nazionale, una regione, una città, venti anni possono essere invece un’immensità e rappresentare uno spazio dentro cui si muovono luci e ombre, che circondano la gabbia nella quale la verità trascina le proprie catene e le sbatte contro le sbarre gelide, cercando di spezzarle e di venir fuori, irrompere. Via D’Amelio è la ferita aperta sul cuore di una democrazia invasa dai fili di burattinai perfidi, che si nascondono dietro un muro di facce e parole di circostanza, reazioni inconsulte, manovre, reticenze, ritrattazioni, silenzi.

Chissà se arriveremo mai ad avere giustizia, a conoscere per certo i nomi dei traditori, quelli che hanno aperto le voragini dentro cui affossare, insieme al tritolo, ai detriti e ai brandelli di carne, la speranza di libertà dalla mafia e dai poteri oscuri che rendono lo Stato sempre più fragile, disperatamente bloccato tra gli ingranaggi secchi di una storia fondata sui segreti, sul mistero. Equilibri sottili, compromessi solidi, connivenze granitiche. Eppure in quella voragine non sono riusciti a seppellire la coscienza civile, che è sgorgata insieme alle lacrime di rabbia, trasformandole in sete di giustizia, la stessa che dopo venti anni ci fa urlare ancora, ci spinge a sostenere chi, con mille sforzi e sotto il fuoco dei nemici e dei complici di Stato, continua ostinatamente a ricercare la verità, a servirla, a non abbandonarla.

I magistrati di Palermo, oggi, sono meno soli di quanto fossero Falcone e Borsellino ieri e questo lo si deve solo alla forza eterna del loro esempio, al valore altissimo di un sacrificio animato dalla speranza di una lunga lotta che non sarà vinta dai protagonisti in campo, ma dopo di loro, grazie a loro e a chi ne saprà seguire la strada, ciascuno con il proprio semplice ruolo, con le proprie scelte quotidiane, che devono essere difficili e lasciar respirare il peso di quella difficoltà, nella consapevolezza di compiere il proprio dovere per costruire un mondo migliore per coloro che verranno. Un atto di generosità verso tutti, questo è il senso che Falcone, Borsellino e tutte le persone che hanno combattuto e combattono contro la mafia hanno dato e danno a quella lotta. Lo stesso significato che ha mosso degli agenti di polizia a fare la scorta, a non accettare ferie o sostituzioni per non lasciare solo un giudice o un commissario o un prefetto, sapendo di poter morire, sapendo che ogni giorno di sole era guadagnato.

Oggi, le commemorazioni piene di retorica, in stile militare, dove quel significato è sopraffatto dalla forma, dal presenzialismo irritante di chi ancora prova ad ostacolare chi cerca la verità, sono un’arma di distrazione, sono tentativi di deviare l’attenzione, di chiudere tutto dentro l’emotività di un Paese che si ferma alle lacrime senza avvertire il bruciore di stomaco, senza che ci sia quel rabbioso tremore che strozza la voce di chi pretende giustizia. Un Paese che ha paura di chi la verità la dice, talmente paura che permette che si insinuino dubbi sulla lucidità di Salvatore o di Agnese Borsellino. Proprio venti anni dopo, quando le inchieste iniziano a squarciare il velo dei silenzi collusi, a partorire nomi e imbarazzi, a certificare le cose che da anni vengono denunciate da chi come Salvatore veniva preso per visionario, folle, mitomane. Sì, perché questo qualcuno denunciava, mentre falsi pentiti depistavano e mentre la politica si chiudeva nelle stanze segrete per cercare un nascondiglio sicuro alle proprie vergogne.

L’Italia è la tomba prediletta dei segreti di Stato, ma è anche un Paese che spesso non si accorge dei cambiamenti in essere. Venti anni dopo possiamo dire che, anche se resistono l’inettitudine e la miseria della classe politica, c’è una cittadinanza che si è svegliata, ha aperto gli occhi e pretende, oggi, che il vaso dei misteri venga scoperchiato, costi quel che costi. Un’attenzione che è ossigeno per chi combatte ed è pericolo per chi prova ancora a insabbiare e negare. Ci vorrà tempo, ancora tanto, forse non arriverà mai una condanna giuridica, ma ci sono reati e responsabilità morali che saranno presto evidenti: toccherà a noi leggere la sentenza di condanna definitiva e comminare la pena con le nostre scelte e la nostra mobilitazione. Per difendere questi venti anni e non lasciare che si perdano, insieme ai sacrifici e al dolore che li hanno partoriti, nell’oblio di un archivio senza storia e pieno di sterile retorica.

Massimiliano Perna –ilmegafono.org