La crisi, lo spread, le borse, le grandi manovre per ridare stabilità ad un sistema che comincia a mostrare seri e preoccupanti segnali di crollo imminente: l’argomento principale di questi giorni è obbligato e non potrebbe essere altrimenti. E, pensando per un momento in positivo, tutto questo ci ha permesso di trovare un po’ di riparo dalle non notizie, dalle dichiarazioni sterili, dai mostri delle tv, dai programmi spazzatura, dal gossip, da tanti altri obbrobri che ottenebrano la mente. La crisi è l’unica cosa che conta. Perché la gente si è svegliata suo malgrado, perché distogliendo per un attimo le mani dal telecomando e infilandole in tasca ha trovato il vuoto, ha sentito le scuciture profonde, i buchi insidiosi che si aprono sulla stoffa lieve del proprio presente e sulle tonalità scolorite del proprio futuro. Mi sono detto e ho scritto tante volte, in questi anni, che gli italiani sono da sempre instabili e che il consenso di questo popolo, anche quando appare di proporzioni bibliche, non è mai reale.

Basta che si accorgono di essere rimasti al verde, di vedere minato il proprio modello di benessere, che sono capaci di voltare le spalle a chiunque. Era accaduto con Craxi, si ripropone con Berlusconi, seppur con le dovute distinzioni. Ci voleva lo shock, ci voleva l’allarme di un probabile tracollo, di una impossibilità di rinviare soluzioni che possano salvare il salvabile. Nella dialettica sui grandi sistemi, si confrontano e si scontrano visioni opposte dell’economia, con ricette differenti, accuse, proposte, posizioni conflittuali e quant’altro. La maggior parte parla di misure drastiche, qualcun’altro comincia a parlare di cittadini, accorgendosi finalmente che, oltre a grandi numeri, esiste anche la gente che non ce la fa più. L’impoverimento, malgrado Berlusconi sostenga il contrario, è in atto.

E non da ora. Non è questione di pizzerie piene o vuote, non è da lì che si misura la crisi, anzi è volgare portare su questo piano così meschino un ragionamento che è invece doloroso e serio. La crisi è dentro la nostra vita quotidiana, da tempo. Sono diversi anni ormai che, al di fuori dei cortili dorati del potere, il cittadino comune patisce una situazione di declino progressivo che si porta con sé tutta una serie di conseguenze. Giovani che non aspirano più ad un futuro professionale voluto, agognato, e che si sentono fortunati se riescono, con qualsiasi tipo di lavoro e con contratti a progetto o a termine, a portare a casa uno stipendio, anche se è più basso del normale. Tanti altri esclusi dal mercato del lavoro, sfruttati, precarizzati in nome della crisi. Costretti a spostarsi, ad emigrare all’interno del territorio nazionale o verso l’estero.

Famiglie che  resistono reggendo da sole il peso dell’assenza di un sistema di welfare e di ammortizzatori sociali. Padri e madri di famiglia rigettati dal mercato del lavoro, con la difficoltà immensa di riaccedervi e con un carico di responsabilità sulle spalle che schiaccia, distrugge. Un dramma che non ha solo una connotazione economica, ma anche sociale, psicologica, umana. Depressione, sconforto, angoscia, il pessimismo che ingabbia quel ventaglio di sogni semplici, quasi banali, che un tempo erano certezze pressoché realizzabili e che oggi appaiono chimere irraggiungibili. Coppie divise, bambini sballottati da una città ad un’altra, costretti a scegliere uno solo dei due genitori. E c’è chi non ci crede, chi dice che sono invenzioni, che in realtà la gente poi sta bene. Non è così. Il problema è che in questo Paese la rabbia si cova in silenzio e lacera, consuma, spegne.

Non più di due settimane fa, in aeroporto, a Milano, ho incontrato una signora della provincia di Caltanissetta, insegnante, che attendeva di conoscere il gate dell’aereo per Catania mentre teneva a bada la propria vivace e graziosa bimba. Due parole nate da uno scambio di informazioni sul volo e in breve mi racconta che da 5 anni lavora in una scuola di Piacenza e non riesce a tornare, ma resiste pur di non perdere il posto, resiste in una città ostile e lo fa per sua figlia, per quella figlia che vive con lei, lontana dal papà che vede ogni tanto (gli aerei costano) e non vede l’ora di riabbracciare. Dove sta la politica? Dove quegli economisti da balera che vomitano le stesse ricette che sono alla base di questo dramma? Dove sono i grandi sistemi mentre la vita delle persone scorre tra rinunce e violenze al proprio diritto di sognare una vita normale?

La felicità: dove e come si trova la felicità al tempo della crisi? Si disperde dentro la sfiducia, il pessimismo concreto, lo sguardo bloccato sul presente, sul quotidiano, che impedisce di pensare al futuro, di costruire, di realizzare. Nemmeno le cose più comuni e normali, come i rapporti familiari e sentimentali, riescono a vincere e spesso naufragano, si impantanano nella paura e nell’impossibilità di un domani. La crisi non è stata mai guardata davvero in faccia, né da chi governa (e si permette l’ennesimo sfregio di rinviare le dimissioni), né da chi da anni finge di fare opposizione.

La crisi è prima di tutto nello stomaco e nel cuore della gente, quella stessa gente che silenziosamente prova ad andare avanti, ogni giorno, facendo il proprio dovere ed evitando di lasciar libero sfogo alla propria rabbia, mentre le mummie di potere giocano a dama con il loro destino e quello dei loro figli. E l’individualismo a cui siamo stati spinti in questi anni non fa che diminuire le possibilità di cacciarle via quelle mummie e di riprenderci un po’ di felicità. Perché è anche per questo che dovrebbero pagare. Per avercela rubata. Per avercela sfilata con eccessiva facilità.

Massimiliano Perna –ilmegafono.org