Qualche sera fa, alla Casa della Cultura, a Milano, il giornalista Filippo Astone ha presentato il suo ultimo libro che racconta, attraverso le storie di alcuni protagonisti, la vicenda di Confindustria Sicilia e la svolta avvenuta con la delibera che ha introdotto il principio dell’espulsione di tutte le aziende che pagano il pizzo. Ospiti della serata alcuni illustri rappresentanti dell’antimafia e della società italiana. Primo fra tutti il procuratore della Repubblica di Caltanissetta, Roberto Scarpinato, il quale, nel suo intervento introduttivo, ha fornito un quadro impeccabile di quella che è la fisionomia reale del sistema mafioso oggi. Ha parlato di colletti bianchi, della necessità di combattere il “depistaggio culturale”, le falsificazioni, i luoghi comuni che molti libri e qualche fiction (vedi la famigerata serie “Il Capo dei Capi”) hanno diffuso e diffondono nell’opinione pubblica. Ha celebrato l’importanza di una presa di posizione di Confindustria, dopo anni di silenzi e di complicità sfacciate, la vitale sinergia tra imprenditoria e istituzioni, la frattura tra un mondo di connivenze e un mondo di giovani imprenditori che si è fatto spazio onestamente sul mercato e, ad un certo punto, ha rivendicato la propria libertà.
Lo stesso Scarpinato ha però messo in guardia tutti sul rischio di una possibile “reversibilità” di questa situazione nuova, a tratti rivoluzionaria. Allo stesso modo, Nando Dalla Chiesa, un altro dei relatori, pur applaudendo la scelta di Confindustria Sicilia, con equilibrata cautela ha ribadito che solo il domani dirà se si tratti di una vera “rivoluzione” o se finirà nelle maglie di quel riflusso letale che ha inghiottito tante altre rivoluzioni siciliane, anche quelle cariche di maggiore entusiasmo e speranza. Il dibattito sviluppato da tutti gli intervenuti ha fornito numerosi spunti di riflessione al pubblico che ha seguito con attenzione le oltre 2 ore di assemblea, le cui conclusioni sono state affidate al sindaco di Milano, Giuliano Pisapia. “Rivoluzione” è la parola pronunciata con maggior frequenza durante la serata per marchiare la scelta degli industriali siciliani, accolta subito dall’Assolombarda, rappresentata al tavolo dei relatori dal presidente Alberto Meomartini.
Da giornalista che, fino all’anno scorso, spendeva la sua vita ed il suo impegno tra i gangli del territorio siciliano, nell’ascoltare gli intervenuti sono stato accompagnato da sensazioni piuttosto contrastanti: l’amara fortuna di conoscere bene la reale fisionomia mafiosa tracciata da Scarpinato, le perplessità dinnanzi allo stupore e alla meraviglia sul volto di alcune persone sedute in platea, quando sono state ricordate le infiltrazioni criminali al Nord, la rabbia di fronte a certe affermazioni sconsiderate che sono state buttate lì come verità assolute. “Falsificazione” è stato detto a proposito di tanti luoghi comuni e di quel carico di demagogia che accompagna spesso le analisi o i “prodotti” culturali che hanno per oggetto la mafia. Ebbene, quella falsificazione, a malincuore, l’ho vista serpeggiare, infida e fulminea, tra le parole dell’autore il quale, piuttosto che preoccuparsi di vendere copie e di stigmatizzare chi va alle presentazioni senza acquistare il libro, farebbe bene a presentare meglio il proprio lavoro, magari pulendolo da quelle impure certezze e fastidiose presunzioni che rivelano la debolezza e la parzialità del suo pensiero.
Sentir dire che “non si può chiedere troppo a Confindustria”, perché ha già fatto più di quanto potesse fare, fa rabbrividire, perché ci si dimentica che la scelta fatta dagli industriali è arrivata con colpevole ritardo e soprattutto che si tratta di una scelta doverosa per liberarsi da una condizione di vergognosa anormalità. Il dovere è un concetto che in questo Paese viene spesso deturpato, vilipeso. Non è possibile trasformare in eroi coloro che hanno semplicemente rimediato ( tra l’altro i risultati concreti sono ancora tutti da valutare) ad una tremenda mancanza civile. Ma questo è un errore che ci può stare e in cui spesso in tanti, anche in buonafede, incappano. Ciò che, invece, è difficile da digerire, è la rappresentazione arbitraria e parziale della realtà. Avrei voluto chiedere agli industriali presenti ed all’autore perché, parlando della “svolta di Gela”, nessuno abbia fatto il nome di Rosario Crocetta, vero protagonista e promotore di quella rivoluzione. L’ex sindaco di Gela è colui che ha sollecitato il cambiamento, in una realtà fatta fino ad allora di rapporti perversi tra impresa, mafia e politica.
All’indomani della sua elezione a sindaco, nel 2003, interviene subito sul sistema degli appalti al Comune di Gela spezzando i tentacoli unti con cui la Stidda aveva ottenuto tutto. Niente più procedure di somma urgenza, l’obbligatorietà della certificazione antimafia, la presentazione e l’apertura delle buste alla presenza dei vertici delle forze dell’ordine, oltre alla famosa “notte della caduta delle stelle”, ossia il provvedimento deliberato il giorno di San Lorenzo con cui venivano spostati dagli uffici strategici tutti i vecchi funzionari, quelli collusi con la mafia. Da lì parte il “modello Gela”, che si estende, che porta alla firma del protocollo di legalità con cui tutte le istituzioni e i soggetti attivi del mondo economico e sociale si impegnavano ad agire sinergicamente contro l’inquinamento mafioso. Tutto dimenticato, nel corso di questa serata di celebrazione apologetica di Confindustria. Così come l’autore dimentica o forse ignora un elemento importante della storia dell’antiracket siciliano. Ad un certo punto del dibattito, infatti, Astone, nel difendere l’operato di Confindustria dai dubbi che non sia sufficiente, accusa l’immobilismo di altri soggetti, a partire dalla Confcommercio, e apostrofa i commercianti siciliani definendoli “i più arretrati d’Europa”.
Salto quasi dalla sedia, come punto all’improvviso, e vorrei urlare decine di cognomi: Conticello, Piazzese, Caligiore, Miceli e tanti altri. Chi sono? Commercianti siciliani che, mentre Confindustria taceva, mentre molti suoi associati facevano affari con la mafia e arraffavano appalti, si sono ribellati, hanno scelto di denunciare, sono stati i primi a seguire l’esempio di Libero Grassi, ucciso dalla mafia e dal silenzio assassino della Confindustria dell’epoca. Commercianti che sono stati pionieri, dando vita in molte realtà, come nel caso della provincia di Siracusa negli anni ’90, alle prime associazioni antiracket, subendo attentati e continuando a resistere ed a rimanere con la schiena dritta. Come si permette Astone di infangare e disconoscere il ruolo di chi nel silenzio ha combattuto e continua a farlo? Potrà dire che è stata una minoranza. Ed allora allo stesso modo potremmo dire che di concreto Confindustria non ha ancora fatto nulla.
La sua scelta è importante certo, ma simbolica e non sufficiente, perché oltre a punire chi paga (che spesso ha anche una normale paura legata all’incapacità dello Stato di tutelare chi denuncia) dovrebbe anche sanzionare chi con meccanismi sospetti acquisisce appalti milionari pur non avendo le carte in regola per farlo, dovrebbe espellere chi non rispetta le norme di sicurezza sul lavoro, chi ha contatti promiscui con personaggi in odore di mafia. Ed è fuori luogo dire, come ha fatto Astone, “allora chiediamo a Confindustria di espellere anche chi fa le corna alla moglie”, perché c’è poco da scherzare e molto da lavorare e c’è soprattutto il diritto di pretendere ulteriori sforzi, concreti, reali. Se ognuno di noi pensa che solo rimediando ad una mancanza ha già fatto il proprio dovere allora siamo lontani dalla percezione di ciò che davvero significa contrasto alle mafie. Gli uomini dello Stato caduti per mano mafiosa facevano il loro dovere nella consapevolezza che fosse necessario fare sempre di più. Non accontentarsi.
Se un imprenditore come Squinzi parla di giovani e del dramma disoccupazione e poi non critica e non denuncia chi fa del contratto precario (a progetto, a termine, stage) l’arma di ricatto puntata sul futuro di quei giovani, se lo stesso attacca il Meridione e le infiltrazioni mafiose che infettano l’economia del Sud e poi tace sulle decennali connivenze tra impresa e finanza del nord e mafie, allora vuol dire che la strada da fare è davvero lunga e che siamo ancora al tempo delle parole, troppo spesso retoriche e strumentali. Cominciamo dalla verità e, soprattutto noi che scriviamo, facciamolo con l’umiltà di metterci al suo servizio, non con la testa rivolta ai dati di vendita, ma con il cuore e il pensiero rivolto a chi per quella verità ha perso tutto, finanche la vita.
Massimiliano Perna –ilmegafono.org
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