Immaginate di essere un imprenditore edile calabrese, di avere una moglie professionalmente affermata, due bambini piccoli ed una bella casa, insomma una vita felice e serena. Immaginate poi che questa vita venga improvvisamente stravolta dalla vostra decisione di denunciare alle autorità le minacce ed i tentativi di estorsione subiti, di vedervi inaspettatamente strappato tutto ciò per cui avete duramente lavorato per anni, tutti i vostri affetti, le facce care, i luoghi della vostra adolescenza, la serenità delle vostre giornate: benvenuti nell’inferno personale di Pino Masciari.
Com’è iniziato il suo esilio dalla Calabria?
Ho denunciato le richieste degli estortori nel 1987, quando la parola “racket” era ancora poco conosciuta, negli anni immediatamente precedenti le grandi stragi che hanno sconvolto l’Italia, quando mettersi contro le mafie era davvero considerata una follia suicida. Io però ho sempre avuto un forte senso di giustizia e l’idea di dover scendere a compromessi con dei criminali per poter lavorare non mi andava giù; per cui, dopo averne parlato con mia moglie Marisa, ho preso questa difficile decisione ed ho catapultato la mia famiglia in un incubo che ci ha visto molto spesso abbandonati da chi pensavo ci avrebbe protetti. Sapevo benissimo chi affrontavo, ma non sapevo che denunciare volesse dire essere fatto fuggire ed esiliato dalla propria “casa”, dalla propria terra. È orribile perché non ti senti colpe da espiare. Forse la mia colpa è stata non limitarmi a denunciare solo le richieste della ‘ndrangheta, ma anche gli uomini delle istituzioni che pretendevano tangenti sugli appalti. Le mie denunce hanno portato all’arresto di molti boss e di un magistrato. Dopo la denuncia siamo dovuti scappare, sono venuti a prenderci di notte, il 17 ottobre del 1997, una notte che non potrò mai dimenticare, la notte in cui io e mia moglie siamo stati costretti a fuggire da casa nostra con i nostri due figli avvolti nelle coperte e con il cuore pieno di paura e rabbia. Paura per la nostra incolumità e rabbia per il nostro ingiusto esilio. Ho sempre pensato che in un mondo civile non dovrebbero essere esiliate le persone che servono la giustizia, ma i criminali.
Sembra inevitabile chiedere se ha mai dei ripensamenti. Se potesse tornare indietro al 1987 denuncerebbe nuovamente i suoi estortori?
Sì, certamente. Lo farei anche se sono consapevole che quelle denunce hanno privato me, mia moglie Marisa e soprattutto i nostri due figli di una vita normale. Adesso sono adolescenti e purtroppo non hanno mai avuto una vita “normale”. Sono molto bravi a scuola, ma gli mancano esperienze importanti nella crescita di una persona, non hanno mai potuto correre, essere spensierati, giocare con i loro cuginetti o con i loro coetanei, ne hanno mai avuto la nonna e i più cari alla festa di compleanno: hanno vissuto gli ultimi 15 anni nella terrificante paura. Eppure sì, rifarei quelle denunce, perché è la mia indole agire nel giusto e con onestà. Malgrado tutto, malgrado spesso non siamo stati adeguatamente protetti e assistiti, io credo ancora nella giustizia e sono convinto che ognuno di noi abbia il dovere di fare tutto il necessario per servirla, per difendere quella legge che è l’unica in grado di garantirci la libertà.
Ha detto che non siete stati sempre adeguatamente protetti. In che senso?
Diciamo che la nostra protezione è stata piuttosto incostante e non troppo attenta. Nel corso delle mie testimonianze nei vari processi che si svolgevano in Calabria, è accaduto spesso che venissi lasciato solo tra un’udienza e l’altra, più di una volta mi è stata prenotata una camera d’albergo con il mio nome reale ed è accaduto persino che la targa della macchina che mi scortava in tribunale recasse la sigla del luogo protetto, un luogo che (in teoria) sarebbe dovuto essere sicuro e dunque segreto. Sono solo due piccoli esempi ma ce ne sarebbero a centinaia. Tutto è peggiorato il 27 ottobre 2004, quando la Commissione centrale del ministero dell’Interno ha deciso di concludere il programma di protezione dei testimoni: una decisione che mi è apparsa incredibile visto che i processi non erano ancora terminati. Ho dunque fatto subito ricorso al TAR che si è però espresso, con notevole ritardo, solo il 23 gennaio 2009. Il Tribunale Amministrativo ha accolto il mio ricorso ed ha previsto fossero garantite misure di protezione ed il risarcimento danni per il periodo intercorso, periodo che è stato sicuramente il momento più difficile del nostro esilio. In quegli anni bui ci siamo resi conto che non sempre potevamo contare sull’aiuto dello Stato che avevamo dimostrato di difendere, eppure non ci siamo mai trovati soli, abbiamo sempre avuto accanto ‘gli amici di Pino Masciari’, un gruppo di persone che hanno ascoltato la mia storia e ne sono state scosse, un gruppo che è divenuto molto numeroso e che ci ha dato forza in molti momenti difficili. Non solo ci hanno sempre supportato moralmente, ma è anche accaduto molte volte che mi accompagnassero quando ero privo di scorta, subentrando come una vera difesa popolare, e oggi si fanno carico di impegnarsi tutti per far conoscere la nostra storia perché, come ho sempre sostenuto, ogni persona che viene a conoscenza della mia storia mi allunga la vita di un giorno.
La conoscenza come arma per proteggervi. è questo il motivo che l’ha spinta, insieme a sua moglie Marisa ,a scrivere il libro “Organizzare il coraggio?”
Sì, da quando ho cominciato a raccontare la mia storia io e la mia famiglia siamo usciti dall’anonimato, dall’ isolamento obbligato che ci stava uccidendo, non siamo più esclusivamente il numero di matricola 1663 ,una pratica burocratica da protocollare, ma siamo persone reali che soffrono e combattono. Se prima le nostre battaglie sembravano semplici da ignorare, adesso sono in molti ad affiancarci e a rinvigorire la nostra lotta per la libertà e per la giustizia. Dalla nostra esperienza abbiamo capito che per poter sconfiggere le mafie è necessario organizzare il coraggio proprio come loro organizzano la malavita.
E adesso com’è la vita della famiglia Masciari?
Dallo scorso 24 aprile sono ufficialmente fuori dal programma protezione testimoni, ci siamo trasferiti in una nuova città e continuiamo il nostro impegno per l’affermazione della legalità nel nostro Paese, accompagnati dall’immancabile paura che non ci abbandona mai e dalla consapevolezza che la nostra vita sarà sempre segnata e sarà difficile per noi un semplice ritorno ad una vita normale, ma al contempo con il grande orgoglio che ci viene dalla consapevolezza di aver agito con dignità, secondo coscienza ed a difesa della giustizia.
Anna Serrapelle- ilmegafono.org
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