Totò, il leggendario attore napoletano, in una sua poesia, definiva la morte una livella, qualcosa che appiana tutte le ingiustizie e le odiose differenze. Ma forse nemmeno lui poteva immaginare a quale livello di orrore e profonda discriminazione potesse arrivare la vita. A Palermo, nell’ultima operazione della Dda sul traffico di esseri umani tra Libia e Italia, nell’ambito delle indagini basate anche sulle dichiarazioni di un ex trafficante eritreo, oggi collaboratore di giustizia, è emerso quello che in tanti sapevamo ma che tutti speravamo fino alla fine potesse non essere vero. Il traffico di organi, un’altra fetta spietata di un business disumano, internazionale, trasversale. Un business nel quale non c’entrano la religione, le provenienze, le culture, ma soltanto i soldi e il loro puzzo ipnotico.

Un giro d’affari che non conosce scrupoli, che vive della miseria altrui, la sventra, la rimesta, la svuota e poi la trasforma in oro da trasportare al fresco ovunque serva, ovunque vi siano compratori. La livella, dicevamo. Forse la morte dà pace, forse fa sì che non ci siano più carnefici e vittime, ricchi spietati e poveri senza futuro, mani assassine e carni tenere. Ma prima, poco prima di quella livellazione umana, è andato in scena un orrore spaventoso. E ha scelto il copione più desolante, quello sulla quale si basa il mondo, ossia la differenza tra chi ha e chi non ha nulla.

Spesso qualcuno dimentica che, nel dramma della migrazione, sia essa per fame e per speranza di lavoro o per fuga dalla guerra e speranza di salvezza, a fuggire è sempre una sparuta minoranza, ossia coloro che possono permettersi il viaggio, che hanno la possibilità di pagare la solida, avida, spietata rete di trafficanti. Se pensiamo alla Siria, va detto che la maggior parte dei cittadini siriani è rimasta in patria, cercando riparo all’interno dei confini, sperando di trovare salvezza e provando a schivare le bombe, i proiettili, le mine e gli agguati delle tante fazioni in campo. Solo una parte è riuscita ad andarsene, ad attraversare le frontiere per rifugiarsi nei paesi limitrofi. E una fetta ancora più esigua ha potuto provare a raggiungere l’Europa. Proprio così, anche la possibilità di salvarsi dipende dai mezzi.

E questo vale anche per altre etnie, per altre provenienze che compongono il mosaico dell’immigrazione che si muove dall’Africa, dall’Asia e dal Medio Oriente. I poveri insomma sono spacciati. Sempre. Anche quando riescono a partire e si indebitano con i trafficanti. Arrivano in Libia, come ci racconta l’inchiesta di Palermo, e se non riescono più a pagare vengono uccisi. Venduti e uccisi. Sventrati, svuotati e i loro organi rivenduti al mercato nero internazionale. Uomini, ragazzi, donne, bambini. Non c’è differenza. Sono merce. Trattati da merce. Il loro cuore, gli occhi, i polmoni, per i trafficanti, non sono contenitori di vita, di sogni, gioie, dolori, umanità: sono solo merce. Oggetti di valore da strappare via, da rapinare senza pietà, come fossero collanine oppure orologi. Esseri umani che non hanno niente, nemmeno la forza di riuscire a salvarsi.

Accade anche questo al di là del Mediterraneo, davanti alle nostre frontiere sulle quali qualcuno vorrebbe piantare muri e blindare le porte di accesso. Questo è il quadro sanguinoso e tragico a cui vorremmo voltare le spalle, lasciando che le vittime aumentino e vengano macellate nel silenzio. Sono questi gli orrori che vorremmo semplicemente seppellire sotto la nostra complice indifferenza. Quando si parla di terrorismo, di rischi, di barconi da rimandare indietro, da respingere, di “aiutiamoli a casa loro”, di referendum contro l’accoglienza, di soluzioni rarefatte che non portano a nulla, si è complici di questi orchi. Inutile mandare sms sbrigativi, quando qualche pubblicità mostra gli occhi di bambini che forse vorrebbero qualcosa di diverso dai soldi e dalla pietà.

Inutile se poi si lascia spazio all’egoismo e si chiede ai governi di infischiarsene, di pensare prima agli italiani, agli inglesi, agli ungheresi, agli europei. Inutile se poi si vogliono i muri, le espulsioni e le polizie ai confini. Ci sono occhi che non vedrete mai, voci che non sentirete mai. Perché vengono cancellati, strappati via. C’è un orrore davanti a casa nostra, alla nostra presunta civiltà, che stiamo lasciando scorrere con colpevole strafottenza. E i carnefici che nutriamo con il nostro silenzio e la nostra inerzia non sono solo libici o eritrei o etiopi, ma anche italiani, europei e altro ancora. Perché il business e la violenza non conoscono confini né barriere culturali.

La comunità internazionale, le Nazioni Unite, l’Unione Europea non possono più tergiversare. È ora che intervengano. E lo facciano con qualsiasi mezzo che possa evitare altra morte, che possa evitare che altri poveri cristi vengano trasformati in merce dalle mani insanguinate di una rete sadica di criminali assetati di soldi e di potere. Perché la morte sarà pure una livella, ma le ingiustizie sarebbe molto meglio (ed è possibile se si vuole) sanarle prima che l’orrore vinca tragicamente sugli uomini.

Massimiliano Perna –ilmegafono.org