C’era una volta l’Italia, c’erano una volta i diritti dei lavoratori conquistati a forza di battaglie che hanno contribuito a rendere questo paese più moderno e civile. C’è, adesso, un pericoloso tentativo di fare marcia indietro sotto diversi punti di vista. Il decadimento politico e culturale dell’Italia è il riflesso della degenerazione del sistema economico, nel quale l’etica trova difficilmente spazio, nel quale il maggiore profitto è divenuto l’unico propulsore, da difendere ad ogni costo. La globalizzazione, espressione moderna ed inevitabile dell’idea capitalista, ha interessato merci, lavoratori e denaro, ma nulla ha prodotto sul piano dei diritti e delle uguali opportunità. Si tratta di un abbraccio globale che però esclude una fetta consistente della popolazione mondiale. L’Italia, al pari di ogni altra nazione immersa in questo fenomeno globale, si trova ad affrontare le criticità del nuovo scenario economico e sociale, ma lo fa in un contesto di debolezza politica, legislativa e sindacale.
La crisi ha accentuato i conflitti, che sono rimasti sopiti per anni in nome di una falsa speranza di cambiamento, ma che adesso, con le tasche che si svuotano, il precariato che si diffonde a macchia d’olio, le imprese che chiudono o trasferiscono le proprie produzioni all’estero, lo smarrimento angosciato dei giovani, cominciano a conoscere una progressiva ed inevitabile intensificazione. Se poi accade che qualcuno, con il ricatto della fuga verso paesi in cui il costo del lavoro è più basso, vincola investimenti necessari e il mantenimento di una parte dell’occupazione a una stretta sui diritti dei lavoratori e sul sistema di democrazia sindacale all’interno delle fabbriche, allora il conflitto rischia davvero di avere conseguenze pericolose.
L’ad della Fiat, Marchionne, intervistato da Fabio Fazio, si è permesso il lusso di mostrare agli italiani la sua arroganza e la sua scarsa memoria, scaricando le colpe della crisi sui lavoratori e su quella parte del sindacato che non ha ceduto al ricatto, nascondendo sbrigativamente decenni di aiuti di Stato, una pioggia di denaro pubblico che la prima azienda automobilistica italiana ha ricevuto nei momenti di maggiore difficoltà. Ha minacciato l’Italia di andarsene, l’ha accusata di essere la palla al piede di un’azienda che ormai è proiettata sul piano internazionale, globale. Il mondo politico, in buona parte, ha risposto con una certa durezza, ma è anche vero che Marchionne ragiona da manager inserito nell’odierna logica di mercato e che è proprio la politica ad avere maggiori responsabilità.
La debolezza di chi amministra il Paese ha consentito a Marchionne, alla Fiat ed a quei sindacati palesemente “morbidi”, di far precipitare la situazione in zone come Pomigliano o Termini Imerese, di promuovere accordi scandalosi come quelli di Pomigliano, in cui si è creato un precedente e si è messa in discussione una parte fondamentale della storia civile di questo paese. Tutto rientra in una logica secondo cui il lavoratore è tornato ad essere l’ultimo anello di una catena spietata. Il lavoratore in Italia comincia ad essere solo. È solo perché i fronti di lotta sono pochi rispetto alla gravità della situazione. È solo perché c’è un governo che non si preoccupa delle esigenze di chi lavora, ma distrae il popolo con argomenti che nulla hanno a che fare con il lavoro, con la crisi economica e con i bisogni concreti dei cittadini. È solo, infine, perché il sindacato è spaccato e dalla parte dei lavoratori è rimasta solo una sigla, con tutti i limiti che ciò comporta.
Per non parlare poi della sicurezza sul lavoro, di cui ormai non si parla quasi più. Le morti bianche continuano, con il loro ritmo impietoso, a insanguinare i cantieri, le officine, le strade. Dopo la strage della Thyssen si era levato alto il coro di indignazione, l’allora governo Prodi aveva approntato una legge sulla sicurezza sul lavoro molto dura, che prevedeva sanzioni durissime. Dopo l’iter obbligatorio, però, quella legge (d.lgs. 81/2008), che pur migliora la precedente previsione normativa, ha visto ammorbidire alcuni passaggi, tra i più delicati, come quelli relativi alle pene per i datori di lavoro responsabili. In questi giorni, però, sul mondo dei diritti dei lavoratori si è abbattuto l’ennesimo macigno, che fa ancor più male perché puzza di discriminazione e di razzismo. Non è certo una novità che se sei un lavoratore straniero, in Italia, vali ancor meno degli altri. Lo dimostrano decine di inchieste, studi, ricerche, sul mondo del lavoro nell’agricoltura, nell’edilizia, nel campo della ristorazione e o nei lavori domestici, ecc.
La novità assoluta, invece, è scoprire che in Italia questa differenza etnica c’è anche di fronte alla morte di un lavoratore. Lo ha stabilito un giudice del Tribunale di Torino, Ombretta Salvetti, la quale, nella causa di risarcimento per la morte sul lavoro di un operaio albanese, ha riconosciuto ai familiari una cifra dieci volte più bassa di quella stabilita per un pari ruolo italiano. Tutto per via dell’applicazione di tabelle differenti che calcolano il coefficiente in base al contesto economico del paese di origine e non di quello in cui si svolge l’attività lavorativa. In poche parole: secondo il magistrato, se si fossero applicate le tabelle valide per tutti i lavoratori, i familiari dell’operaio scomparso, vivendo in Albania dove il costo del denaro è minore, avrebbero ottenuto una cifra spropositata per la situazione economica albanese, e ciò avrebbe procurato un ingiusto arricchimento.
Una decisione assurda, che fa riferimento ad una vecchia sentenza della Cassazione, ma che non tiene conto del principio di non discriminazione tra lavoratori, riconosciuto dalla Costituzione e ribadito nel 2009 dalla Corte Costituzionale. Anche morire, in Italia, non vale allo stesso modo per chiunque. In base a questo principio utilizzato dal giudice Salvetti, che ha fatto indignare e infuriare molti civilisti e costituzionalisti e che ha segnato una nuova pagina nera nella storia del diritto, quando un lavoratore muore sul lavoro bisogna provvedere a risarcire le famiglie ma non prima di aver verificato da quale paese povero proviene. Ci si chiede perché allora, per la stessa ragione, ai lavoratori albanesi non viene chiesto di pagare tasse e contributi dieci volte minori.
Almeno, una sentenza come questa avrebbe forse una spiegazione meno imbarazzante. La cosa grave, però, insieme all’aspetto discriminatorio, sta nel fatto che con queste sentenze, che creano un inquietante precedente, si potrebbero stimolare quei datori di lavoro poco attenti alla sicurezza ad investire sui lavoratori provenienti dai paesi più poveri e spendere meno per la sicurezza, cullandosi sul fatto che in caso di incidente mortale il risarcimento sarebbe misero. Sembra una forzatura questa, ma l’Italia ci ha abituato ad accorgerci spesso che la realtà supera la fantasia, persino quella più perversa.
Massimiliano Perna -ilmegafono.org
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