Gioacchino Genchi è un personaggio scomodo. È un funzionario di polizia, esperto informatico, che ha operato come consulente tecnico per molte procure, nell’ambito di indagini delicate, come quella sulle stragi del 1992 e l’indagine “Why not?” a fianco dell’ex pm De Magistris. Per la sua attività informatica, che lo ha portato al centro di attacchi provenienti da una parte del mondo politico, è finito sotto inchiesta con l’accusa di aver svolto attività illegale di intercettazione, accusa da cui è stato pienamente assolto. Intanto però è stato sospeso per sei mesi dalla polizia e allora gira l’Italia per raccontare la sua esperienza e le sue verità. Lo incontriamo in Sicilia, alla vigilia di una conferenza sulla mafia e sui rapporti con le istituzioni. Si parla dei continui attacchi alla procura di Caltanissetta, che indaga sui famigerati terzi livelli: “C’è un tentativo ben preciso di mettere in atto una vera e propria delegittimazione nei confronti dei magistrati di Caltanissetta. Questo per me è l’aspetto più grave. C’è qualche giornale che lancia degli scoop, delle anticipazioni che magari sembrano un plauso al lavoro dei magistrati, ma che invece mirano a delegittimare il lavoro dei magistrati”.
Pensa, dunque, che ci sia malafede?
Certamente. Le faccio un esempio: pubblicare i nomi degli investigatori della Dia e della Polizia di Catania che hanno fatto l’accertamento è un tentativo scientifico di depistaggio, una fuga di notizia gravissima che contiene gli elementi per bloccare un percorso virtuoso su un accertamento che era in corso. Per esperienza personale so come certi organi di stampa siano stati utilizzati per bloccare il lavoro dell’autorità giudiziaria quando questo lavoro toccava collusioni col mondo della politica e anche col mondo dell’informazione”.
Lei di sicuro si riferisce a “Why not?”. Che fine ha fatto la verità emersa a Catanzaro?
Catanzaro ha chiuso quell’indagine perché doveva dare una giustificazione, creando un grandissimo uovo di Pasqua che è stato offerto ai media per dire che non è vero che hanno insabbiato tutto. E da quel grande uovo di Pasqua hanno fatto sparire la sorpresa. Se si considera che, tutte le intercettazioni e i tabulati su cui si basavano gli elementi essenziali di riscontro per confermare i presupposti di indagine, non sono nemmeno stati depositati all’udienza preliminare, già si capisce che hanno fatto un’inchiesta vuota.
Esistono degli antidoti a tutto ciò?
Gli antidoti per ciò che è avvenuto a Catanzaro purtroppo non ci sono, perché in Calabria manca quella cultura che in Sicilia, col sangue delle stragi, si è formata; manca quella crescita anche culturale dei magistrati che ha consentito di dividere chi sta da una parte e chi sta dall’altra. A Catanzaro, se lei ci fa caso, nessun magistrato usa il canotto o il materassino gonfiabile. Li ritroviamo ancora sugli yacht. E non è una metafora, ma un dato di fatto che risulta anche da acquisizioni di indagine.
In Italia si torna a parlare di cricche, poteri occulti, influenze politiche. Viene in mente la battaglia di Giorgio Ambrosoli. Davvero l’Italia in questi 30 anni non è cambiata?
La vicenda di Ambrosoli è significativa. Ci pensavo qualche giorno fa. È paradossale che sia io a parlare di queste cose, io che sono solo un consulente. È un assurdo che oggi le ricostruzioni di fatti devono essere fatte da un consulente e non da chi ha avuto ruoli e compiti istituzionali. È un assurdo che la verità la si poteva aspettare dal lavoro di Ambrosoli, che era un commissario liquidatore. Questo ci dimostra come negli apparati istituzionali le collusioni, il carrierismo, l’omertà, la paura, l’indifferenza, l’insipienza, il nihilismo, tutto quello che vogliamo ha portato, chi aveva il dovere di fare o di non fare, a non fare ciò che dovevano o a fare cose diverse da quelle che avrebbero dovuto fare. Questo è l’aspetto patologico del sistema.
Chi è Marcello Dell’Utri?
Quello che è lo dice lui. Se si leggono bene gli atti del processo ci si accorge che è un processo nel quale, secondo me, potevano essere escluse le intercettazioni, i pentiti e tutto, perché bastavano le parole di Marcello Dell’Utri per arrivare a una sentenza di condanna. Io, da analista di quel processo, le dico che la parte più interessante l’ho trovata proprio nel vissuto di Dell’Utri, nelle sue dichiarazioni, nei suoi contatti telefonici, nella sua vita, e la trovo nella sua ultima intervista, quando lui ribadisce, senza che rientrasse nel tema, che Mangano è un eroe.
Cioè?
È un messaggio. Lui dice: ‘Mangano è un eroe perché in quelle condizioni in cui lui si trovava, non so nemmeno io come ha resistito’. E aggiunge: ‘Io non so se avrei resistito in quelle condizioni’. Cioè lui sta dicendo a qualcuno: ‘Guarda che se io vado in carcere non so se avrò la forza che ha avuto Vittorio Mangano di star zitto. Quindi, visto che non hai fatto ancora a sufficienza per aiutarmi, visto che probabilmente la P3 non è riuscita in toto a sistemare il processo di Palermo, ti avverto’. Anche perché a Palermo gli sono saltati solo due anni rispetto alla condanna di primo grado con l’assoluzione dal 1992 in poi…Una specie di prassi per cui uno è mafioso fino a una certa data e poi non lo è più, come se uno smettesse di fumare, una cosa che fa un po’ ridere.
Secondo Lei, quel è il tipo di rapporto tra Dell’Utri e Berlusconi?
Marcello Dell’Utri è un tutt’uno con Berlusconi, loro sono nati insieme. Berlusconi, se non ci fosse stato l’apporto di Dell’Utri, con quello che ha significato anche in termini di apporto di capitali siciliani, utili a costruire quel grande impero economico, finanziario, imprenditoriale e mediatico che è Berlusconi, non sarebbe esistito. Sono legati a doppia mandata. E la forza di Berlusconi sta proprio nella capacità che ha avuto di coinvolgere tutte le persone con cui ha agito in un tutt’uno. Lo ha fatto con Previti, con Dell’Utri, con tutte le persone con cui ha operato a strettissimo rapporto. E questo tipo di legame è tipico anche delle organizzazioni criminali. Il più grande collante che lega le associazioni criminali o che lega due criminali, non è l’amicizia, ma il crimine. Tanto più grave è il reato che due persone hanno commesso insieme, tanto maggiore è il vincolo di solidarietà che le accomuna per tutta la vita. C’è solo da augurarsi a questo punto che Dell’Utri venga condannato in via definitiva e che poi, come lui ha anticipato, non abbia la forza di essere un ‘eroe’ come Vittorio Mangano e che ci racconti tutto sul presidente del Consiglio. Sarà un’occasione unica. Mi auguro che i tempi ci aiutino e che Berlusconi rimanga in vita e che goda ottima salute per potere, a quel punto, essere processato.
Secondo Lei quanto siamo vicini alla verità?
Se dovesse essere disarcionato Berlusconi, se non dovesse avere più il controllo della polizia di Stato, dei carabinieri, dei servizi di sicurezza, degli organi di informazioni, si attiverebbe un percorso virtuoso in un’Italia che è fatta da tante persone per bene. Io ritengo che l’Italia, in quello che è il suo tessuto connettivo, che viene proprio dalla base, abbia le forze per reagire, per rialzarsi. Il problema è, nel momento in cui cerca di rialzarsi, che non ci sia qualcuno dall’alto che cerchi di tenerla in basso. Il problema oggi è liberare le istituzioni, bonificarle, perché nel momento in cui le istituzioni non sono bonificate tutto quello che fanno le forze di polizia nei confronti del ladro, del mafioso, vale solo ad applicare la legge nei confronti dei più poveri e dei più deboli, perché nei confronti dei potenti purtroppo non vale la stessa regola, non vale lo stesso principio, la stessa pretesa punitiva, perché queste indagini rischiano di ritorcersi (e io purtroppo ne pago le conseguenze) più nei confronti di chi le fa che nei confronti di chi le dovrebbe subire.
Nel caso di crollo dell’attuale sistema di potere, non potrebbe esserci il rischio di un nuovo scenario di violenza e di sangue da parte del crimine organizzato?
Dipende dal fatto o meno che le istituzioni siano salde e al loro interno virtuose. Io credo che ci siano gli antidoti per reagire. È necessario che nei servizi di sicurezza, nelle forze di polizia, negli apparati giudiziari, vengano garantite autonomia e indipendenza e che questa indipendenza possa affrancare anche la magistratura non solo dai rischi delle pressioni, ma anche dalle collusioni. Quando di queste collusioni ne ho parlato io sono stato preso per pazzo, per eretico, mi si sono scagliati tutti contro. Quando sono venuti i Ros a perquisirmi ci sono state delle scene patetiche. I giornalisti all’uscita mi hanno chiesto una dichiarazione su ciò che era accaduto e io ho detto: ‘Chi di Ros ferisce di Ros perisce’. È passato meno di un anno e i fatti mi hanno dato ragione anche in questo.
Massimiliano Perna -ilmegafono.org
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