La violenza di genere è trasversale – diffusa pressoché in ogni angolo del pianeta ed esercitata da persone di varia estrazione sociale e vario livello culturale – oltre che multiforme. Una delle sue espressioni più subdole, perché pressoché invisibile e ancorata a retaggi culturali e costumi sociali, è quella delle mutilazioni genitali femminili (MGF). Sono quattro le tipologie previste, da quella meno invasiva, per così dire, a quella che prevede una sutura pressoché totale degli organi genitali. Le cifre, se paragonate a quanto poco si parli della tematica, sono allarmanti: più di duecento milioni di donne hanno sofferto una forma di mutilazione, la maggior parte sin da bambine, alcune nell’adolescenza. In Italia, sarebbero quasi novantamila le donne che vi sono state sottoposte e altre migliaia di ragazze sarebbero a rischio; ovviamente si tratta di stime, poiché l’argomento è ancora un tabù, sia perché legato alla sfera sessuale delle donne – discorso che, per ritrosia e vergogna, in generale, viene toccato meno rispetto a quanto avvenga, in modo da sempre culturalmente accettato, per la controparte maschile – e sia perché è un argomento correlato a pratiche sociali ancestrali, difficili da scardinare, custodite gelosamente e ritenute potenzialmente immutabili.

Attualmente, l’area nella quale le MGF sono praticate è quella dell’Africa subsahariana, in una linea ideale che lega il Senegal, a ovest, alla Somalia, a est; qualche caso si registra tuttora in Asia – Indonesia e Malesia, ad esempio – oltre che in Medio Oriente, Iraq e Yemen soprattutto. Le donne, anche quelle di seconda generazione che arrivano in Europa, non sono al riparo: le mutilazioni sono percepite come un rito di passaggio, una prassi atavica che mira a sancire l’inserimento nel genere femminile, che rientra tra i preparativi per il matrimonio – mantenendo la sposa potenzialmente vergine – e, secondo una visione miope, sconfessata dalla medicina moderna, serve a garantire maggiore igiene e prevenzione da malattie. In realtà, oltre ad essere un’operazione dolorosa, realizzata non in strutture sanitarie, ma in luoghi ritenuti pervasi di sacralità, e non da medici, bensì da figure (le “tagliatrici”) che ricoprono un apposito ruolo nella comunità, è una attività non esente da rischi e che comporta molteplici effetti collaterali nel corso della vita delle donne che vi sono state sottoposte, soprattutto durante le successive gravidanze ed i parti.

La diffusione delle MGF su un territorio così vasto ed eterogeneo, nel quale si ritrovano lingue, culture e persino religioni differenti, pone diversi interrogativi sulle origini della pratica. Sarebbe facile ritenere, rincorrendo gli slogan politici attuali che rievocano becere visioni colonialiste, che si tratti di pratiche realizzate da stranieri, da africani soprattutto, da gente arretrata, dai temutissimi musulmani. Eppure, a ben vedere, le sfumature sono molteplici. Innanzitutto, tra le pratiche che intervengono sugli organi genitali, e sempre con intenzioni culturali, religiose e tradizionali, va annoverata anche la circoncisione maschile, realizzata da chi vive in ben diversi luoghi del mondo, da chi professa una diversa fede, da chi ha la pelle di un diverso colore. È chiaro che le MGF hanno un carattere più invasivo ed esiti più traumatici, eppure il sostrato culturale è simile, cosi come l’attaccamento tradizionale alla pratica.

In secondo luogo, la pratica delle mutilazioni non è affatto prerogativa del mondo musulmano. Anzi, è certo che non sia stato l’Islam ad introdurla nel continente africano. In realtà, le origini di tale pratica non sono chiare: si ritiene che fosse conosciuta già prima tra le popolazioni indigene, nell’Egitto dei faraoni (prova ne sia, tra l’altro, che l’infibulazione è detta “circoncisione faraonica”). Ma non solo: già nell’antica Roma si praticavano delle mutilazioni, sia sulle donne, prevalentemente sulle schiave, sia – con un approccio, dunque, quasi egualitario – sugli uomini, per mantenerli illibati.

Sarebbe errato, in ogni caso, ritenere che siano solo le società musulmane ed africane ad avere mantenuto l’usanza: la pratica delle FGM è diffusa tra le donne di vari gruppi etnici, che siano di religione cristiana o di religione islamica. Il primo dei gruppi religiosi la attua prevalentemente su neonate, il secondo opera – sempre secondo tradizione – su bambine e adolescenti. E, anche in tali casi, la concreta espansione della pratica dipende dalle aree, urbane o rurali, e dagli specifici contesti culturali. Per molti anni, si è mantenuto il riserbo assoluto su tali argomenti, nemmeno i colonizzatori occidentali hanno mai osato mettere bocca su pratiche tradizionali che, d’altronde, riguardavano solo l’altra metà del cielo. Ultimamente, tuttavia, il velo di silenzio si è squarciato e si è detto, ad alta voce, che le MGF costituiscono una pratica vessatoria, una forma di violenza di genere, un retaggio privo di basi mediche.

Quasi l’interezza degli Stati nei quali la pratica è diffusa ha preso una posizione ufficiale contro la stessa e ha adottato legislazioni punitive nei confronti di coloro che ancora la attuano, iniziando soprattutto, a divulgare l’idea che le mutilazioni non siano ancorate ad alcun precetto religioso e che alle stesse ci si può, ci si deve opporre. Parallelamente, le organizzazioni non governative, come Amref e Action Aid, hanno avviato dei progetti e delle campagne di sensibilizzazione, coinvolgendo non solo le nuove generazioni – le potenziali vittime della pratica – ma anche le generazioni di donne anziane, tra cui si celano le tagliatrici. Lo scorso 6 febbraio è stata celebrata la Giornata mondiale della tolleranza zero contro le mutilazioni genitali femminili e, in Italia, si sono tenute diverse riunioni del movimento Youth in Action finanziato dall’Unione europea e formato da attivisti italiani, con radici ed origini di altri paesi.

Nelle nuove generazioni, in Europa così come in Africa, vanno riposte le speranze affinché si realizzi un profondo cambiamento culturale, affinché si abbandoni l’idea che questa pratica sia una stravaganza di alcune popolazioni e la si qualifichi come una vera e propria violenza ai danni delle donne, spesso perpetrata da altre donne. Tuttora, parlare di FGM è un tabù, circostanza che rende complesso anche valutare l’efficacia delle misure di prevenzione adottate per limitare questa pratica. Non sono mancati gli interventi normativi, cone la legge 7 del 2006, dedicata proprio al contrasto alle MGF in Italia, o i piani strategici nazionali sulla violenza contro le donne che fanno eco alla nota Convenzione di Istanbul del 2011 e, da ultimo, la direttiva europea del maggio 2024 dedicata alla violenza domestica e di genere, che, in più punti, qualifica le mutilazioni genitali femminili come una pratica che mira “ad esercitare un controllo sociale sulla sessualità” femminile.

Nonostante tutto questo, però, sono pochi gli operatori sanitari che hanno una formazione specialistica per entrare in contatto con vittime di tali pratiche ed il numero verde dedicato riceve ben poche telefonate di richiesta d’aiuto. La sessualità delle donne è ancora innominabile, spesso fondata sull’idea che la sofferenza sia un fattore ineliminabile e che il corpo femminile sia un simulacro asservito alle esigenze maschili. La lotta, che parte dal cuore dell’Africa, contro le MGF ha tanto da insegnarci, sulla resistenza ad ogni forma di violenza di genere.

Sophie M. -ilmegafono.org