Trovare un equilibrio, difficile dire se nuovo o vecchio, all’interno di un gioco nel quale l’equilibrio sembra la parola proibita. Il gioco in questione è la politica internazionale, che è fatta sì di equilibri sottili, ma anche e soprattutto di alleanze che si sciolgono come neve al sole e di strette di mano che durano il tempo di una cena di gala. C’è un mondo che cammina sull’orlo di un abisso costruito nel corso degli anni, ed è difficile individuare chi non abbia portato il suo contributo; un abisso su cui si affacciano due tragedie che più di tutte le altre segnano comunque un punto di non ritorno per l’umanità. La guerra in Ucraina e il genocidio di Gaza sono i teatri di quella tragedia. Dentro un teatro si muovono sempre marionette e burattini, qualcuno manovra i fili, mentre i popoli muoiono sotto le macerie della civiltà e di un’umanità comunque sconfitta. Dietro a ogni guerra c’è sempre un secondo fine, il vero affare della guerra: la ricostruzione e la spartizione dei territori e la nascita di nuovi equilibri politici. I morti, i lutti e le vite interrotte non contano più, sono solo danni collaterali, nulla di fronte al business della ricostruzione.

Porre fine ad una guerra implica che qualcuno, più di altri, saprà ricavarne vantaggi: politici, economici, nuove alleanze e nuovi territori. È un gioco duro, dove i valori etici e morali hanno poco spazio, perché quello che conta è il calcolo, e quello spetta a chi si siede ai tavoli di pace ma solo dopo aver calcolato tutto: dove, quando e con chi sedersi a quei tavoli. Il vertice di Riad fra USA e Russia è il primo segnale di un nuovo copione della politica internazionale, perché a quel tavolo non siedono statisti, ma un immobiliarista e un banchiere: Steve Witkoff, il miliardario amico di Trump, scelto dal presidente per negoziare sulla pace, e Kirill Aleksandrovič Dmitriev, il capo del fondo sovrano di Mosca. Dmitriev è nato a Kiev e nel suo passato professionale spiccano gli incarichi in Goldman Sachs a New York e McKinsey & Company a Los Angeles, Mosca e Praga.

Oggi le carte sono tutte su quel tavolo e il bluff è finito, Donald Trump esclude l’Europa dal negoziato sulla guerra fra Russia e Ucraina e gioca la sua partita, che poi è la stessa che gli USA da sempre stanno giocando e che ora vogliono vincere: prendersi l’Europa, più di quanto non abbiano già fatto dal 1945. L’ossessione con cui il presidente USA si muove contro il Vecchio Continente, la forza delle sue minacce e delle sue intimidazioni servono a dividere l’Europa, metterla all’angolo: “divide et impera”, perché la divisione, la rivalità, la discordia dei popoli sono il pane per chi vuole dominare quei popoli. Ma questa Europa in quell’angolo ci si è messa da sola, con le sue scelte politiche e le sue ambiguità, con i suoi silenzi. Per anni “complice fedele” di ogni scelta e di ogni diktat della Casa Bianca, non si è mai posta il problema di un’autonomia politica che le consentisse anche una dignità politica. Nella sua storia l’Europa ha sempre seguito gli USA in ogni avventura militare e politica, ma nel frattempo ha permesso che al suo interno i leader peggiori conquistassero sempre più consenso e potere.

La rielezione di Donald Trump alla Casa Bianca è stata salutata con calore da quei governi che avevano bisogno di un appoggio e di una sponda per ragioni di politica interna, Italia e Ungheria su tutti. C’era anche chi pensava, grazie ad un rapporto personale sempre più stretto con il presidente americano, di poter essere la persona giusta per mediare e ritagliarsi così un ruolo nella storia, ma nessuno più di lei è ora in quell’angolo. Il suo nome? Giorgia Meloni. La premier italiana, che non ha mai nascosto il suo orgoglio per essere stata l’unico capo di governo invitato da Trump al suo insediamento il 20 gennaio, dichiarava convinta: “Sono qui per per saldare l’asse Italia-Ue-Usa. Così si consolidano le relazioni con il principale alleato dell’Italia e della Ue, presidente degli Usa e guida dell’Occidente”. Questa sua disponibilità e questo suo incessante spendersi pubblicamente in favore di Donald Trump ha sicuramente infastidito l’Europa e, in particolare, la Francia e la Germania.

Il fatto stesso che Giorgia Meloni sia stata la prima leader ad ipotizzare l’aumento del 2% delle spese militari è stato un segnale in più di disponibilità verso gli USA. La domanda, ora, è quanto lei sia disposta a rinsaldare il suo legame politico con Trump e quanto questo rafforzamento possa incidere sul rapporto, già difficile, con l’Europa. Lei che lanciava l’appello “a rafforzare il pilastro europeo della Nato”, ora si trova nella situazione in cui trovare l’equilibrio è la più difficile delle missioni. L’Europa è sempre più spaccata, ed è proprio quello che voleva Trump. La risposta europea al tavolo di Riad, a cui non è stata invitata, si concentra nel vertice dei leader europei a Parigi voluto dal presidente francese Macron, un incontro a porte chiuse, dove si è discussa anche l’ipotesi dell’invio di truppe di pace in Ucraina, con Francia e Gran Bretagna “favorevoli” ma con il no di Germania, Italia, Spagna e Polonia.

Da quell’incontro non è uscito nulla di concreto: nessun accordo, nessuna unità di intenti. Giorgia Meloni ha ribadito la sua contrarietà all’idea che l’Europa possa decidere da sola senza coinvolgere gli USA, affermando che “qualsiasi forma di garanzia che escluda gli Stati Uniti non va bene”. Del vertice di Parigi il segretario generale del Partito democratico europeo, Sandro Gozi, ha testualmente detto che “serviva per mandare un segnale forte: che non si decide nulla sull’Ucraina senza l’Ucraina e non si decide nulla della sicurezza dell’Europa senza gli europei”. La grande affinità ideologica che lega Giorgia Meloni e Trump su argomenti cari ai rispettivi elettori ed il rapporto quasi idilliaco con Elon Musk sembrava garantire a Giorgia Meloni tutte le carte necessarie per quel ruolo di mediatore fra l’amministrazione Usa e l’Europa. Le cose non sembrano andare nel senso sperato dalla premier e lo scontro sempre più marcato fra Trump e l’Europa pone la stessa Meloni in un angolo da cui diventa difficile uscire.

La situazione si complica ulteriormente nel momento in cui Trump accusa pubblicamente l’Ucraina di essere la vera responsabile della guerra. Eppure, il 15 maggio, il presidente ucraino Zelensky scriveva su X il seguente messaggio: “Abbiamo iniziato a lavorare con il team del presidente Trump e possiamo già vedere che il successo è raggiungibile. In questo momento, il mondo guarda all’America come alla potenza che ha la capacità non solo di fermare la guerra, ma anche di aiutare a garantire l’affidabilità della pace in seguito”. Come si pone ora Giorgia Meloni di fronte a queste dichiarazioni, sia quella di Trump sia quella di Zelensky? Considerando il sostegno finanziario, militare e politico che l’Europa e l’Italia hanno sempre concesso a Kiev in comune accordo con gli USA di Joe Biden, diventa difficile credere che la tempesta perfetta scatenata da Trump possa esaurirsi con una stretta di mano.

A rendere tutto ancora più grottesco per Giorgia Meloni è anche l’apertura di un capitolo interno di non poco conto: fra i suoi alleati di governo, il ministro degli Esteri, Antonio Tajani, dichiara che “le parole della nuova amministrazione Usa sono sempre forti…non è un linguaggio che ci appartiene, occorre tenere i nervi saldi”. mentre il vicepremier Matteo Salvini ha ribadito “il pieno sostegno all’impegno di Trump per la fine dei conflitti”, ribadendo di avere “enorme stima di Trump che sta facendo in poche settimane più di Biden in quattro anni, nell’interesse di tutti, a partire dall’Occidente, e quindi anche nostro”. A sostegno delle parole di Matteo Salvini arrivano anche quelle di Giuseppe Conte.

Ma quanto conta davvero la fine della guerra in Ucraina, così come nella Striscia di Gaza, per tutti i leader – o presunti tali – che attorno a queste guerre assurde prima e ad un piano di pace ora, hanno costruito le proprie fortune politiche? Nulla, non conta nulla. Quello che conta davvero sono i benefici economici e geopolitici che andranno a vantaggio di chi saprà presentarsi come colui che ha imposto la pace. Quando il presidente Trump parla delle “Terre rare” si capisce già tutto: sono quei “500 miliardi di dollari” che Trump chiede a Zelensky come indennizzo per il sostegno passato e futuro, e si parla di asset strategici, materie prime, porti e infrastrutture di petrolio e gas. Quando di Gaza si parla come della “nuova riviera” si dice si capisce la stessa cosa. Al tavolo di Riad si è presentata ufficialmente la nuova stagione della politica internazionale: USA e Russia, come una volta, ma solo in parte. Alcune novità oggi sono solo testimoni, ma pronti a entrare in scena al momento giusto: i padroni di casa dell’Arabia Saudita per esempio. La guerra è solo un passaggio obbligato. Kiev, come Gaza, sono il banco di prova per i nuovi equilibri e Giorgia Meloni quell’equilibrio dovrà cavalcarlo e dovrà scegliere suo malgrado.

Maurizio Anelli -ilmegafono.org