L’11 novembre 2023, Giulia Cecchettin, studentessa veneta ventiduenne, veniva brutalmente uccisa dal suo ex fidanzato, Filippo Turetta. Un assassinio che ha scosso e indignato l’Italia, o almeno una sua parte, suscitando una risposta e stimolando manifestazioni, iniziative, discussioni sul tema della violenza nei confronti delle donne e su quello della lotta contro la cultura patriarcale ancora radicata nel nostro Paese. Siamo a un anno da quel terribile fatto e siamo alla vigilia del 25 novembre, giornata internazionale contro la violenza sulle donne, ma poco è cambiato, soprattutto ai piani alti del potere, ossia laddove esiste la responsabilità di agire e di azionare le leve giuridiche ed educative necessarie. La cifra dei femminicidi è sempre altissima, le donne continuano a subire violenza e a morire, a essere oltraggiate e discriminate, a dover lottare per poter vivere liberamente e senza paura.

Mentre da un lato c’è chi, come la famiglia di Giulia, si impegna generosamente e quotidianamente per cercare di unire le forze e contrastare la violenza di genere, dall’altro troviamo la disarmante inettitudine di un governo e di una destra incapaci di uscire dal vuoto della loro propaganda e dalle paludi fangose della propria ideologia. Ne è espressione Giorgia Meloni, che scimmiotta il femminismo, banalizza volgarmente la questione del linguaggio di genere, guida un esecutivo che ha prodotto norme che discriminano le donne, soprattutto quelle che non possono o non vogliono vivere la dimensione della maternità. Ne è espressione anche il presidente del Senato, Ignazio La Russa, colui che affermava che Giorgia Meloni non è la “classica donna che ha avuto bisogno di un uomo per emergere”, o che difendeva a priori il proprio terzogenito dall’accusa di stupro esprimendo dubbi sul “racconto di una ragazza che, per sua stessa ammissione, aveva consumato cocaina” prima di incontrare il rampollo di famiglia.

L’elenco potrebbe continuare, ma non ce n’è bisogno, perché per riassumere tutto il pensiero misogino e maschilista di questa destra al potere è sufficiente citare uno dei suoi esponenti di punta, come il ministro dell’Istruzione, Giuseppe Valditara. Quest’ultimo, ancora una volta, è stato protagonista di una uscita squallida e inaccettabile, proprio nel giorno della presentazione, alla Camera dei Deputati, della Fondazione Giulia Cecchettin. In un suo messaggio, affidato a un video, il titolare dell’Istruzione ha vomitato tutto lo pseudopensiero che attraversa la maggioranza di governo sul tema della violenza di genere e, in generale, su quello della parità tra generi. Mentre la famiglia Cecchettin cerca di far comprendere come il tema riguardi tutti noi, Valditara ha pensato bene di calpestare ogni buon senso e ogni esigenza di verità, trasformando il momento in un orribile sfogo di propaganda razzista: “Deve essere chiara a ogni nuovo venuto, a tutti coloro che vogliono vivere con noi, la portata della nostra Costituzione, che non ammette discriminazioni fondate sul sesso. Occorre non far finta di non vedere che l’incremento dei fenomeni di violenza sessuale è legato anche a forme di marginalità e di devianza in qualche modo discendenti da una immigrazione illegale”.

Un’ossessione della destra, che non riesce nemmeno per un istante a non agitare il fantasma dell’immigrazione “brutta, sporca e cattiva”, nemmeno quando si parla dell’ennesimo caso in cui il carnefice è un cittadino italiano, per di più studente e di buona famiglia. Non riesce a non sventolare la bandiera dell’etnicizzazione della violenza, nonostante le casistiche dicano altro, nonostante la maggioranza delle violenze sulle donne e dei femminicidi abbia per protagonisti cittadini italiani e peraltro, molto spesso, si consuma in ambito familiare, domestico o amicale. Ma a Valditara non basta tutto questo, perché oltre ai migranti c’è un altro nemico da colpire, un altro bersaglio da puntare: le donne che lottano e chi le sostiene. Così, il ministro si lancia in un’analisi piena di strafalcioni storici e di una visione della realtà surreale, avulsa da qualsiasi realismo, oltre che impietosa circa l’evidente lassismo di questo governo sul tema dei diritti delle donne e dell’educazione all’affettività e alla non violenza.

Per Valditara esistono due strade: una “ispirata ai valori costituzionali”, l’altra “ideologica”, incapace di risolvere i problemi e tesa esclusivamente ad “affermare una personale visione del mondo”. Una strada ideologica che “vorrebbe risolvere la questione femminile lottando contro il patriarcato”. Patriarcato che, secondo il ministro, non esiste più “giuridicamente” dal 1975, da quando è stato riformato il diritto di famiglia, che “ha sostituito alla famiglia fondata sulla gerarchia la famiglia fondata sulla eguaglianza”. Fandonie, strafalcioni, perché Valditara forse ignora il fatto che il patriarcato, anche giuridicamente, ha continuato a esistere, se è vero che il delitto d’onore è stato abolito in Italia solo nel 1981 o che, fino al 1996 in Italia, lo stupro era considerato un reato contro la morale e non contro la persona, o ancora che il reato di stalking è stato introdotto solo nel 2009.

Ma non solo, al di là dell’aspetto giuridico, c’è una questione più profonda, originaria: culturalmente l’Italia di cui parla il ministro è ancora molto indietro. Perché il patriarcato si vive quotidianamente, fuori e dentro le famiglie, con la logica del possesso e della sopraffazione nelle relazioni che poi conduce alla violenza, con la sessualizzazione di qualsiasi cosa riguardi le donne, con l’idea che una donna vestita in modo succinto in qualche modo “provochi” il maschio e ne legittimi l’atto violento, o che una donna che assume sostanze stupefacenti, in qualche maniera “se la vada a cercare”. Il patriarcato è nella discriminazione sul posto di lavoro, nei licenziamenti o nelle mancate assunzioni per via della possibilità di gravidanze, nelle frasi sessiste (come l’ultima di un truce esponente politico umbro) e nei complimenti non richiesti, nei giudizi offensivi sulle donne che vivono liberamente la propria vita e il proprio corpo, nel cameratismo maschilista che inquina ambienti di lavoro, sportivi e via dicendo.

Cose che il ministro conosce e peraltro sottolinea, in modo contraddittorio, quando afferma che “il maschilismo si manifesta in tanti modi, con la discriminazione sul posto di lavoro, con il cosiddetto catcalling, con la violenza. Poi c’è il tema del femminicidio, che allarma sempre di più”. Un allarme che però evidentemente non preoccupa il titolare dell’Istruzione, altrimenti in questo anno trascorso dall’omicidio di Giulia Cecchettin, il suo ministero avrebbe riflettuto e agito, magari intestandosi la battaglia culturale che parte dalla scuola evocata dallo stesso Valditara, il quale nulla ha fatto in tal senso, preferendo perdersi dietro a spauracchi gender o promuovere il vetusto e funesto modello Dio-patria-famigliaMa d’altra parte, questo governo è così, vive in perenne campagna elettorale, partorisce slogan attraverso i quali disegnare una realtà parallela, ricca di nemici immaginari e nella quale non c’è spazio né intenzione di governare e di dare al Paese le risposte di cui avrebbe bisogno. Nell’interesse di tutti.

Infine, una postilla dedicata al ministro e, in generale, al suo governo: quando si cita la Costituzione e il fatto che essa non ammette la discriminazione in base al sesso, si fa riferimento all’articolo 3, lo stesso che non ammette discriminazioni nemmeno in base alla razza, alla lingua e alla religione. Se lo ricordi Valditara e se lo ricordino anche la premier e gli altri ministri. Perché la Costituzione va rispettata sempre e non usata (peraltro ipocritamente) quando fa comodo.

Massimiliano Perna -ilmegafono.org