“Eccesso di solerzia”. Così, il ministro dell’Interno, Matteo Piantedosi, ha risposto alle parole del giornalista ed editorialista di Repubblica, Massimo Giannini, che aveva denunciato pubblicamente di essersi visto notificare una querela alle 4 di notte, in un albergo milanese in cui era ospite dopo aver partecipato alla trasmissione “Che tempo che fa”, durante la quale aveva peraltro criticato il governo Meloni. Un comportamento, quello delle forze di polizia, del tutto inaccettabile e fortemente intimidatorio. Perché non vi è alcuna ragione che possa giustificare la scelta di entrare in piena notte in un albergo e buttare giù dal letto un giornalista per notificargli una querela per diffamazione. Non esistono ostacoli tali da impedire che la notifica potesse avvenire presso il domicilio di Giannini, magari a un orario più consono. Il ministro Piantedosi, interpellato, ha parlato di “eccesso di solerzia”, ma è una grande bugia, perché la realtà cruda sta tutta nel clima pesante e pericoloso che la maggioranza di governo e la sua premier hanno montato nei confronti della stampa, o meglio di quella che non si allinea ed esercita il salutare e democratico diritto di cronaca e di critica.
La guerra di questa destra rozza e codarda nei confronti della categoria giornalistica e di chiunque faccia domande o racconti un Paese diverso da quello disegnato dalla propaganda al potere, sta assumendo contorni molto gravi. La vicenda di Giannini è solo una delle ultime, forse una provocazione andata un po’ troppo oltre, più vicina alla smania di intimidire che a una razionale strategia. E l’eccesso di zelo non c’entra affatto, come dimostrano i tanti pezzi di un puzzle che, man mano che prende forma, facendo comparire l’alone tragico di un fantasma passato del quale sembravamo esserci liberati grazie alla maturazione della nostra Repubblica. Oltre all’attacco “legislativo” alla libertà di stampa, infatti, ci sono tanti episodi che si aggiungono e, messi in sequenza, smentiscono la teoria dell’eccesso di solerzia, confermando piuttosto una strategia evidente di compressione di una delle libertà fondamentali per una democrazia.
Il repertorio è vasto: dalla famelica occupazione della RAI, con le conseguenti epurazioni e con la revisione (a vantaggio delle forze di governo) delle regole sulla par condicio, al silenziamento di voci critiche e all’intervento censorio su ospiti e trasmissioni tv; dalle querele agli insulti o agli attacchi diretti a cronisti, intellettuali o a specifiche trasmissioni televisive da parte della premier Meloni, durante comizi o spot. Senza dimenticare il costante sottrarsi alle interviste con testate, trasmissioni, conduttori ritenuti per qualche motivo ostili. Tutto questo, che ha riguardato molto spesso giornaliste e giornalisti o scrittrici e scrittori dotati di una certa notorietà e di un potere contrattuale tale da potersi difendere pubblicamente, è niente rispetto a quello che altri meno noti subiscono quotidianamente in questo Paese.
La nuova arma della politica, che esisteva anche prima ma che la destra ha esageratamente potenziato trasformandola in un abuso, è l’identificazione di polizia per chiunque, indipendentemente dall’esistenza di una ragione oggettiva. Si dice che è normale, che se sei in regola non hai nulla da temere e che lo Stato ha diritto di conoscere chi si muove su un territorio, ma nessuno spiega perché, senza la sussistenza di un pericolo o, ancor più, durante la manifestazione di un diritto o di un pensiero legittimo o durante l’esercizio di un lavoro tutelato dalla legge e dalla Costituzione, bisogna sottoporsi a quella che è una ingiusta ingerenza degli organi di polizia. Che in questo nuovo clima di allergia al dissenso e alla democrazia arriva a identificarti anche se urli che l’Italia è un Paese antifascista o se esponi uno striscione politico o per la pace che non contiene alcun insulto, mentre lo stesso non avviene, o comunque non con eguale solerzia, nel caso di manifestazioni che inneggiano al razzismo o al fascismo.
C’è qualcosa però di ancora più grave, che tocca le corde vive della nostra democrazia: il fermo di polizia, le ore in questura, le perquisizioni o le manganellate a chi (giornalista, videoreporter o fotoreporter) sta seguendo per lavoro un evento. Sta accadendo con una frequenza preoccupante. Soprattutto ai colleghi e alle colleghe che documentano e raccontano le proteste del movimento ambientalista Ultima Generazione, proteste che irritano il governo perché testimoniano dissenso, così come lo testimoniano le altre manifestazioni contro la premier sedate dalle manganellate e dalle identificazioni arbitrarie nei confronti di giornalisti che stavano solo svolgendo il proprio lavoro.
Una censura preventiva, l’ha definita la FNSI, ma servirebbe, anche da parte di chi difende la stampa, maggior coraggio nell’uso delle parole. Perché qui non siamo davanti solo a una censura preventiva, che già di per sé è cosa grave, ma siamo all’intimidazione, alla minaccia violenta, alla violazione anche fisica del diritto di cronaca e del diritto di libera espressione del pensiero. Il fatto che le forze di polizia si prestino con tale disinvoltura a questo indegno ordine, che proviene dalle alte sfere, non lascia presagire nulla di buono per la stampa che opera nel nostro Paese e neanche per i cittadini che hanno il diritto di essere informati o di esprimere le proprie idee pacificamente senza per questo essere fermati e identificati per uno striscione che non incontra il gusto politico del dirigente di turno.
La benzina gettata dalla premier sul fuoco dello scontro con la stampa, con continui attacchi pubblici contro il singolo giornalista o scrittore, con l’ossessiva costruzione del nemico, indicato in chiunque faccia domande o ponga critiche, mostra la scarsa visione politica di una donna che, cresciuta all’opposizione e ai margini della Storia, ha sviluppato rabbia, frustrazione, abilità e furbizia nell’elaborare slogan e nel muoversi sul terreno dello scontro, dimenticando però che quando si governa bisogna aggiungere un elemento imprescindibile, ossia il senso di responsabilità. E il rispetto per una categoria che esercita una funzione importantissima di tutela della democrazia, di controllo sull’agire del potere e di ricerca e diffusione della verità. Giorgia Meloni, purtroppo, continua a scambiare il governo per una tribuna elettorale e il Paese per un’arena dentro la quale rovesciare il pollice della vendetta contro quelli che considera nemici e non avversari.
Lo fa perpetuando la sua truce abitudine, che ha allenato sui suoi social e nei suoi comizi per anni, di indicare bersagli, mettere alla gogna, banalizzare ogni discorso scomodo per evitare di rispondere nel merito alle critiche. Un gioco che può essere fruttuoso a livello elettorale, ma che sul lungo periodo è molto rischioso. Non tanto per lei, quanto per il Paese, da lei trasportato dentro un’atmosfera di costante ricerca di rivalsa nei confronti dell’avversario dissidente, troppo spesso però relegato in posizione di netto squilibrio rispetto al potere. Un potere autoritario e codardo (nel solco della tradizione della quale la premier si ritiene erede) che è capace anche di trasformare in “eccesso di solerzia” quello che è nei fatti un comportamento da regime fascista. Se italiano o sudamericano, decidete voi.
Massimiliano Perna -ilmegafono.org
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