TikTok è uno dei social più in espansione degli ultimi anni e i problemi legati all’utilizzo di questa piattaforma sono ormai noti. In generale, sappiamo che l’uso spropositato del telefonino e, con esso, dei social da parte dei più giovani è uno dei temi che vengono affrontati ormai quotidianamente dagli esperti del settore. Il risultato che ne è emerge è più o meno sempre lo stesso: tutto ciò fa male. E fa male soprattutto alle nuove generazioni. E non è tutto. TikTok, così come tutti gli altri social (ma forse un po’ di più) è anche, purtroppo, il luogo in cui la mafia prova a farsi “bella” e forte davanti a un pubblico pressoché plasmabile e impreparato. Ricchezza sfrontata, forza e violenza, una vita al di sopra della legge e oltre ogni limite: è così che vengono attratti nuovi adepti, ragazzi giovanissimi il cui sogno è diventare ricchi e potenti senza sforzi né limitazioni. In tale modo, l’ambizione più grande per un quindicenne può diventare quella di possedere auto di lusso, pistole, droga e tutto ciò che può sembrare “figo” agli occhi dello stesso.
Si tratta di un problema enorme, questo della mafia digitale, che rischia di espandersi notevolmente. Ciò è ancor più vero se si pensa che la mafia riesce a utilizzare queste piattaforme anche per minacciare e pubblicare video di vera e propria intimidazione nei confronti di chi fa il proprio lavoro o di chi si batte per la legalità e la giustizia. È accaduto al collaboratore di giustizia Luigi Bonaventura che, nell’annunciare la propria partecipazione a un evento di “antimafia sociale” nella sua Crotone, ha dovuto scontrarsi con minacce violente. Subito dopo aver annunciato l’evento, infatti, su TikTok non sono mancati i video di risposta, tra cui quello di un utente che avrebbe rivolto al collaboratore le seguenti parole: “Parli tu di rispetto, come hai rispettato tu tutte le persone che hai tradito e ucciso a tradimento, parli da buon samaritano, tanto lo sai che sei un morto che cammina”.
Lo stesso è accaduto a Francesco Mazzarella, collaboratore di giustizia ed ex boss di camorra, il quale, dopo aver preso le difese di Bonaventura e annunciato la propria partecipazione al suo fianco, avrebbe ricevuto anch’egli minacce neanche troppo velate via social: “Tu vieni e io ti dico che con le mie mani ti sfondo la testa, vediamo quanto vali, è una promessa, lui sa che le mantengo”. Frasi dal contenuto violento, per di più, pronunciate sotto gli occhi di tutti e, quindi, di bambini e ragazzi che usano quel canale. Il punto cruciale, infatti, è proprio questo: se prima certe minacce restavano spesso nel privato tra il mafioso e la vittima (e poi venivano denunciate alle forze dell’ordine), oggi, invece, tutto ciò avviene all’interno di un social, quindi di una piattaforma pubblica alla portata di tutti, disponibile per chiunque.
Come se quella sorta di delirio di onnipotenza che si respira negli ambienti mafiosi venisse non solo ignorato, ma addirittura condiviso e quasi incentivato dagli stessi social. Sì, perché se non viene messo un freno a certi contenuti, allora significa che il problema non sussiste e, quindi, che si favorisce indirettamente questo tipo di linguaggio e di azioni deprecabili. Dello stesso avviso è il procuratore di Napoli, Nicola Gratteri, il quale, durante un incontro con il sindacato dei giornalisti della Campania (Sugc) prima e in un’intervista alla trasmissione “Timeline” su RaiTre poi, ha voluto porre nuovamente l’attenzione sul problema legato alla mafia e all’utilizzo dei social network. “TikTok è la vetrina delle mafie, – ha affermato – si fanno vedere ricchi, firmati, con tanti soldi e dicono ‘noi siamo il nuovo modello, vuoi diventare come noi?’”. “I social per i mafiosi sono una sfida alle istituzioni, un’esternazione di arroganza”, ha aggiunto Gratteri, affermando tra l’altro come i “giovani non strutturati si trovano avviluppati” da questi contenuti e pensano che quello sia il loro futuro.
A ciò si aggiunga la ormai radicata attività delle mafie sul web e sugli spazi che esso offre. Se è vero che c’è una “camorra di strada” (ma questo concetto può essere applicato alla criminalità organizzata in generale), è altrettanto vero che gli affari più grossi, quelli da miliardi di euro, vengono fatti e gestiti online grazie ai bitcoin, alle criptovalute e, soprattutto, al darkweb. Affari che generano introiti da capogiro e che permettono agli stessi mafiosi di fare una vita che, agli occhi di un ragazzino, può sembrare da sogno. Purtroppo la realtà è ben diversa e basterebbe una giusta comunicazione, oltre che un’educazione che si incentrasse anche su questo tema, a smantellare credenze del genere. E ci vorrebbe anche una maggiore fiducia nello Stato e nella sua capacità di produrre gli anticorpi necessari per battere il virus delle mafie.
A tal proposito, sempre Gratteri ha affermato una cosa molto vera e molto forte da ascoltare, soprattutto perché arriva da un magistrato, da un uomo dello Stato: “La gente spesso non denuncia perché non si fida, spesso noi come forze dell’ordine e come magistrati non siamo credibili, non riusciamo a trasmettere fiducia, è un problema soprattutto nostro”. Fiducia, istruzione ed educazione, ricostruzione e promozione di valori reali e vincenti, fondati sull’onestà e la giustizia: è un bel percorso da fare, un percorso bello lungo e tortuoso e probabilmente difficilissimo, ma assolutamente necessario per il bene del nostro Paese e soprattutto di quei giovani che, loro malgrado, si trovano esposti a contenuti nocivi che possono portarli fuori strada. Anche solo culturalmente.
Giovanni Dato -ilmegafono.org
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