Il 6 aprile 1917 gli Stati Uniti dichiarano guerra alla Germania: è il loro ingresso nella Grande Guerra. Nello stesso anno viene emanata una legge che dichiara illegale la divulgazione non autorizzata di tutti i documenti secretati che potrebbero mettere a rischio la sicurezza nazionale degli USA. Quella legge prende il nome di “Espionage Act”. Quasi cento anni dopo, nel 2010, comincia l’odissea di Julian Paul Assange, giornalista e attivista australiano, cofondatore dell’organizzazione divulgativa WikiLeaks. Gli USA lo accusano di aver violato l’Espionage Act e di aver rivelato documenti statunitensi secretati. Sono decine di migliaia, raccontano all’opinione pubblica particolari scottanti sulle attività militari e diplomatiche della storia più recente degli Stati Uniti: sui bombardamenti nello Yemen, sulla corruzione e le complicità nel mondo arabo, sulla rivolta tibetana e la conseguente repressione messa in atto dalla Cina nel 2008, sui metodi di governo della Turchia di Erdoğan.
Ma, soprattutto, vengono resi pubblici migliaia di documenti considerati “segreti”, che chiamano in causa il Pentagono, la CIA e la NSA (National Security Agency), cioè le agenzie al centro del magma militare-industriale degli Stati Uniti d’America. Documenti che riguardano anche le guerre in Afghanistan e in Iraq. Le indagini avviate negli USA si affiancano presto a quelle portate avanti in parallelo dal governo australiano che, tramite il procuratore generale Robert McClelland, dichiara che “dal punto di vista dell’Australia, ci potrebbe essere un buon numero di leggi violate con il rilascio di queste informazioni. La polizia federale australiana lo sta verificando”. Eppure, è stata proprio la pubblicazione di quei documenti a rivelare al mondo i crimini delle guerre in Iraq e Afghanistan, di cui gli USA dovrebbero rispondere davanti alla comunità internazionale. Quei documenti svelano anche gli orrori delle galere di Guantanamo, smascherano le menzogne raccontate per giustificare la guerra alla Libia e le porcherie delle più potenti multinazionali padroni del mondo.
Comincia allora la campagna di delegittimazione e annichilimento nei suoi confronti, a tutti i livelli: professionali e umani. Nel novembre 2010, arriva l’accusa di stupro portata avanti dalla Svezia e da cui parte il relativo mandato d’arresto emesso dal tribunale di Stoccolma. Nel maggio 2017, la procura svedese archivierà l’accusa e un successivo tentativo, sempre in Svezia, di riaprire il caso sarà nuovamente archiviato. Da oltre dieci anni la persecuzione politica nei suoi confronti è feroce e sistematica. Dopo la sua espulsione dall’ambasciata dell’Ecuador, che gli aveva concesso asilo per sette anni per evitare l’estradizione in Svezia per quell’accusa, dall’11 aprile 2019 Julian Assange è rinchiuso nella prigione di massima sicurezza di Belmarsh a Thamesmead, un quartiere del Sud-Est di Londra. Da anni, quella prigione viene considerata la “Guantanamo inglese”.
Gli USA hanno richiesto la sua estradizione e, in base alle accuse di spionaggio e di violazione della legge sull’Espionage Act, se verrà concessa lo attende una condanna a 175 anni di carcere. È in quella “Guantanamo” a Sud-Est di Londra che Julian Assange, in queste ore, aspetta l’esito dell’appello finale davanti all’Alta Corte di Londra. Il suo destino è tutto nelle mani dei giudici. Questa sarà per lui l’ultima opportunità di ribaltare la decisione, presa nel 2022 dal governo britannico di allora, con cui si approvava l’ordine di estradizione negli USA. Se venisse confermata questa decisione, Assange non potrà più ricorrere alla Corte Suprema ma potrebbe solo ricorrere alla Corte europea dei diritti dell’uomo.
Nils Melzer, relatore speciale delle Nazioni Unite sulla tortura, ha scritto un libro che raccoglie i risultati della sua personale ricerca sul caso Assange. Racconta come i governi di Stati Uniti, Regno Unito, Svezia ed Ecuador abbiano agito per mettere a tacere Assange: le violazioni del diritto a un giusto processo, le prove costruite, la tortura psicologica e la sorveglianza costante, la continua diffamazione. Nils Melzer è titolare della cattedra di diritti umani all’Accademia di diritto internazionale umanitario di Ginevra e professore di diritto internazionale presso l’università di Glasgow ed è stato relatore speciale delle Nazioni Unite sulla tortura dal 2016 al 2022.
La storia giudiziaria di Assange è lunga e assurda, impossibile riuscire a riassumerla in poche righe, ma l’aspetto giudiziario, e politico, è un insulto all’uomo Assange e alla libertà di informazione. Kristinn Hrafnsson, caporedattore di WikiLeaks, ha dichiarato: “Se un cittadino australiano che pubblica in Europa può rischiare il carcere negli Stati Uniti, significa che in futuro nessun giornalista sarà più al sicuro”. Come dargli torto? La libertà di stampa, di cui le democrazie occidentali tanto si vantano, è in realtà una libertà in gran parte controllata e resa accettabile, compatibile con la narrazione del potere e dei governi del momento. Le voci libere e indipendenti diventano allora un corpo estraneo, un pericolo da circoscrivere. In questo modo, colpire Julian Assange diventa un messaggio intimidatorio. Gli Stati Uniti sono maestri di questa narrazione, ma l’autocelebrazione sulle libertà e contro gli autoritarismi affonda nel mare delle contraddizioni, negli scandali delle sue amministrazioni e nella violenza della sua vita quotidiana.
La storia e la sorte di Assange toccano la coscienza di tanti. Ovunque, in Europa e nel mondo, sono sorti comitati e movimenti di protesta e solidarietà: gente comune, intellettuali, giornalisti, scendono nelle piazze, davanti a consolati e ambasciate, per chiedere libertà per Assange. Eppure, anche in questo caso emergono le contraddizioni che da sempre caratterizzano le “democrazie occidentali”, l’ossequio e l’inchino mai negato verso il grande e potente alleato capace di condizionare tutto: gli USA. In Italia molte città hanno concesso la cittadinanza onoraria ad Assange, un atto simbolico che non ha rilevanza giuridica ma che significa solidarietà e riconoscimento, significa schierarsi. Fra le città italiane che hanno capito l’importanza di questo gesto non figura Milano, ed è un’assenza grave. Il peso e la responsabilità di questa assenza sono interamente sulle spalle dell’intero Consiglio Comunale del capoluogo lombardo e sui rappresentanti della sua maggioranza, che hanno respinto la proposta presentata da Carlo Monguzzi di Europa Verde e dai consiglieri Enrico Fedrighini e Marco Mazzei della lista Beppe Sala sindaco.
Perché questa scelta, a pochi giorni dalla decisione dell’Alta Corte di Londra? Timore di urtare la sensibilità del Consolato USA a Milano? Questa maggioranza, Partito Democratico e Lista Sala in modo particolare, hanno votato contro o si sono astenuti, e questa scelta non può e non deve passare sotto silenzio, dimostra una volta di più l’enorme peso specifico dell’indifferenza e di un’idea “pilatesca” della democrazia. Spetta al sindaco di Milano e alla sua Giunta, al Consiglio comunale, il compito di rendere conto ai cittadini di Milano sul perché di questa decisione, che si aggiunge ai tanti altri silenzi e distinguo di cui già si sono resi protagonisti. Spiccano, per la loro gravità, le parole con cui il Partito Democratico di Milano ha motivato questa scelta: “Uno Stato deve avere il diritto di secretare delle carte per preservare la democrazia liberale”. È anche su queste parole che il silenzio del Sindaco Sala pesa come un macigno.
Quando questo articolo sarà pubblicato forse conosceremo già la decisione dell’Alta Corte di Londra, quello che oggi già possiamo affermare è che il giornalismo non è un crimine, perché come diceva Joseph Pulitzer, il giornalista ungherese naturalizzato statunitense che ha inventato il giornalismo d’inchiesta, “non esiste delitto, inganno, trucco, imbroglio e vizio che non vivano della loro segretezza. Portate alla luce del giorno questi segreti, descriveteli, rendeteli ridicoli agli occhi di tutti e prima o poi la pubblica opinione li getterà via. La sola divulgazione di per sé non è forse sufficiente, ma è l’unico mezzo senza il quale falliscono tutti gli altri”.
Maurizio Anelli -ilmegafono.org
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