Ritengo, da sempre, che l’emozione abbia un’utilità ridotta. È un’onda che può anche apparire bella, forte, imbattibile, ma poi, come tutte le onde, si infrange in un attimo, si scompone, si sparpaglia nella schiuma che lascia solo una scia, il ricordo di quell’onda. Ma il mare rimane mare e lo scoglio resta scoglio. Lo scoglio, troppo spesso, è il potere, il mare, troppo spesso, è la rivolta. L’onda emotiva seguita all’omicidio di Giulia Cecchettin è commovente, perché dà il senso di come la misura sia ormai colma. Lo si respira nelle piazze, ma soprattutto nei volti e nelle parole dei giovani, delle ragazze che non vogliono vivere una vita in costante pericolo. Già, non me ne vogliano i maschi, ma sono le ragazze a vivere quotidianamente in una situazione di rischio. Noi, come ha ben scritto Elena Cecchettin, la sorella di Giulia, siamo dei privilegiati. Sempre. Anche quando mostriamo rispetto, anche quando sappiamo di non essere come gli altri, di non annoverare la violenza tra le soluzioni alle nostre frustrazioni.
Siamo privilegiati perché non dobbiamo difenderci da nulla, non dobbiamo conquistare nulla. La società patriarcale e maschilista ci viene sempre in soccorso, in un modo o nell’altro ci protegge. E noi, anche i migliori di noi, di quella protezione usufruiamo ogni giorno. Vigliaccamente. Non saremo mai veramente “dalla parte delle donne”, come sento dire spesso a vanvera, se non ci metteremo il corpo e la lotta, se non rinunceremo a quel privilegio. L’omicidio di Giulia non è diverso dalle centinaia di altri omicidi che ogni anno leggiamo o di cui veniamo a conoscenza. Non c’è una morte che colpisce più di altre, né dinamiche particolari che giustifichino la maggiore o minore attenzione. Ma nel caso di Giulia Cecchettin, la differenza l’ha fatta la reazione della famiglia, soprattutto l’ha fatta quella lettera lucida, forte, cruda, immensamente vera di Elena Cecchettin.
Perché il primo segno di quella rivolta lo ha dato lei, rifiutandosi di giocare il ruolo che la società, questa società, ha disegnato e previsto anche per i familiari delle vittime, dalle quali ci si attende solo il dolore, lo strazio, qualche parola singhiozzata, le lacrime e, infine, il silenzio. O al massimo la voglia di giustizia per il proprio caso. Elena è uscita da questo schema, si è ribellata, traslando la voglia di giustizia e la rabbia su un piano più complessivo. Ha rotto il copione dell’egoismo, ha pensato alle altre, a tutte, a tutti. Ci ha messo il corpo e la voce, ci ha messo le parole che sono un pugno in faccia contro il potere e la sua ipocrisia. Lo stesso potere che alleva i suoi figli maschi e li nutre di patriarcato e cultura dello stupro. Che non sono parole buttate al vento, sono concetti che hanno manifestazioni concrete, che si possono individuare in tanti gesti, in tanti discorsi e atti nei quali ciascuno di noi ogni giorno si imbatte e, se vuole, può riconoscere.
Al lavoro, al bar, tra gli amici, negli spogliatoi di una palestra, di un campo o di una piscina. Sono incrostazioni di un maschilismo figlio di modelli beceri che ci trasciniamo da decenni e che le giovani generazioni oggi, se vogliono, hanno la possibilità di distruggere. Sì, distruggere e bruciare. Non nel senso violento dell’eversione, ma in quello alto e rivoluzionario della demolizione di quel sistema di potere e cultura che le generazioni precedenti hanno partorito e protetto. I maschi violenti, dice Elena, non sono malati, sono i figli sani del patriarcato. Ed è proprio così. Si nascondono ovunque, danno segnali che vengono ignorati proprio perché confusi tra i codici di ciò che viene ritenuto assurdamente accettabile.
Il possesso, la gelosia ossessiva, l’etichettare una donna, il pensare che sia tua solo perché con lei hai avuto una relazione o un momento di intimità, il parlarne con gli altri come se fosse un oggetto sessuale, il pretendere che debba sobbarcarsi le tue ansie, lenire le tue paure di solitudine. Il pensare che ci si possa sempre e comunque permettere di fare complimenti o battute spinte e che ciò possa incontrare il loro favore. Il pensare che una donna debba essere per forza madre o per forza sposa, che non possa essere libera, che non possa decidere il proprio percorso lavorativo, che non debba avere lo stesso trattamento economico. Il pensare che non possa rifiutare un rapporto sessuale con il proprio partner. Il pensare che se beve o si droga, allora vuol dire che è disponibile e bisogna approfittarne. La nostra società è piena di potenziali mostri, di maschi insospettabili, apparentemente gentili, ma poi intimamente pericolosi, sessisti, maschilisti, non immuni alla deriva violenta.
La nostra società, certamente, è fatta anche da uomini perbene, dall’animo pulito, ma non servono a nulla se non prendono posizione, se non si impegnano per il cambiamento. Che deve puntare il dito contro il potere. Lo stesso che, all’onda emotiva che ha attraversato l’Italia, ha risposto con le solite parole sterili o con le solite proposte inutili. Come ad esempio, inasprire le pene, ma disertare qualsiasi intervento preventivo di natura culturale, sociale, economica. Oppure parlare di educazione sentimentale nelle scuole (magari affidata a chi scriveva robe indicibili sulle donne), vale a dire una ulteriore leva di ingerenza del potere e dei suoi modelli incancreniti e nocivi nella crescita dei ragazzi. Si sposta insomma tutta la responsabilità sui giovani e sulla scuola, senza avviare alcun processo di cambiamento reale. Ecco perché, l’onda emotiva serve a poco, anzi diventa funzionale al potere, se non si trasforma in protesta forte, insistente, se non mette in costante discussione quel potere in tutte le sue forme.
Allora ha pienamente ragione Elena Cecchettin quando dice che non serve il silenzio, non serve la riflessione, ma serve il rumore, serve un atto politico, una rivoluzione culturale. Non bisogna accettare l’educazione imposta dall’alto, piuttosto bisogna educare chi sta in alto, e non ci si riferisce solo al governo o alla politica, ma a chiunque si trovi in una posizione di potere basata sulla discriminazione di genere e sul modello attuale. Devono farlo le ragazze e i ragazzi, tocca a loro, perché a differenza nostra e al di là di come, attraverso i casi di cronaca, vengono dipinte le giovani generazioni, basta parlare con loro per capire che hanno comunque molti meno steccati mentali di chi li ha preceduti. Ma hanno bisogno di dialogo, di spazio, di essere ascoltati, di poter agire per cambiare il modello di mondo che gli abbiamo imposto.
Dobbiamo dare dei riferimenti validi ma al contempo lasciarci distruggere da loro, dobbiamo stare con loro e donare la nostra legna migliore per permettergli di bruciare tutto e svecchiare un Paese che, sul piano della parità di genere e dei diritti delle donne, è miseramente indietro. Come dimostra l’incapacità di buona parte della politica e di un pezzo cospicuo della popolazione, soprattutto a destra ma non solo, di accettare che una donna come Elena possa ribellarsi alla narrazione attesa, possa avere un’idea ed esprimere concetti politicamente validi. Le reazioni scomposte di alcuni esponenti politici ma anche dei soliti leoni da tastiera, dimostrano che in Italia la donna accettata è ancora quella che, anche quando si discosta da un cliché, rimane comunque nei limiti di quel ruolo che altri hanno immaginato per lei.
Per tale ragione, la speranza è che questa grande risposta collettiva, soprattutto da parte dei giovani, sollecitata da Elena, non si fermi, non sbatta e frantumi contro lo scoglio del tempo che passa, ma smaltisca l’emotività e travolga tutto. Perché solo quando il mare diventa grosso e insiste, allora riesce a travolgere lo scoglio e apre spazi più grandi, disegnando mondi nuovi. Per Giulia, per tutte le altre, per tutte e tutti noi.
Massimiliano Perna -ilmegafono.org
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