Sono passati già 33 anni dall’omicidio Bonsignore, da un barbaro assassinio perpetrato nei confronti di un uomo perbene e onesto, del cui esempio si parla troppo poco. Giovanni Bonsignore era un funzionario della Regione Sicilia e ricopriva il ruolo di dirigente superiore dell’assessorato regionale alla Cooperazione, Commercio e Pesca. Si trattava, in poche parole, di un uomo comune, un lavoratore, lontano da qualsivoglia connessione con ambienti pericolosi o criminali, sia diretta che indiretta. Nonostante ciò, nonostante una vita condotta nella normalità del proprio dovere, il 9 maggio 1990, attorno alle ore 8:30 del mattino, un sicario assoldato su commissione si avvicinava con la propria moto all’uomo, uccidendolo con numerosi colpi di pistola. Un omicidio teatrale, commesso in pieno giorno e a pochi minuti dalla chiusura delle urne elettorali: un vero e proprio omicidio politico-mafioso, si direbbe, che avrebbe avuto come scopo quello di intimidire. Ma intimidire chi? E perché a pagare con la propria vita è stato proprio Bonsignore?

Perché la criminalità avrebbe deciso di far fuori un dipendente regionale integerrimo, lontano da rapporti o scontri aperti con il potere mafioso? La risposta è semplice:  la mafia, così come la conosciamo, c’entra poco con l’omicidio Bonsignore. Stando a quanto emerso dalle indagini e dalle inchieste svolte nel corso degli anni, Bonsignore avrebbe pagato con la propria vita esclusivamente per non aver chiuso gli occhi e per aver mantenuto la schiena dritta. Il fatto che fosse un lavoratore integerrimo, ligio al dovere e soprattutto alle regole, ha disturbato notevolmente funzionari e colleghi. Alcuni dei quali, come è facile immaginare, avevano interessi loschi da proteggere e da portare avanti. Tra questi funzionari è emerso il nome di Antonino Velio Sprio, collega di Giovanni Bonsignore e al tempo stesso capo di una personalissima “cosca” all’interno della Regione Sicilia. Sprio, infatti, dal 1982 in poi, avrebbe facilitato l’erogazione di contributi pubblici nei confronti di una cooperativa di Palma di Montechiaro, “Il Gattopardo”, della quale egli stesso era socio.

D’altro canto Bonsignore, che era stato incaricato di avviare un’inchiesta amministrativa proprio nei confronti di tali contributi pubblici, riuscì ad accertare che lo stesso Sprio avrebbe fatto parte del comitato tecnico incaricato di istruire le pratiche sui contribuiti. Un vero e proprio caso di conflitto di interessi, oltre che una vera truffa ai danno dello Stato. Il rapporto realizzato da Bonsignore venne poi consegnato al Tribunale, il quale condannò Sprio per truffa il 30 aprile 1990. Non deve quindi sorprendere se, esattamente 9 giorni dopo, il corpo di Bonsignore venne trovato in una pozza di sangue in via Alessio Di Giovanni, a pochi passi da casa. Quello di Giovanni Bonsignore è stato dunque un omicidio politico, ma anche mafioso, soprattutto nelle modalità e nelle tempistiche. Il suo omicidio, inoltre, rappresentava una vera e propria intimidazione nei confronti di tutti i funzionari pubblici regionali, soprattutto quelli che, come Bonsignore, credevano nella legalità, nell’onestà, nel lavoro pulito, lontano da ogni corruzione o collusione.

Ecco perché oggi, in un Paese neanche poi così diverso da quello di allora, è bene ricordare il sacrificio e l’esempio di Giovanni Bonsignore. D’altra parte, a distanza di 33 anni, la situazione non è cambiata molto: malgrado siano aumentati i controlli, troppo spesso sentiamo di politici o di funzionari della pubblica amministrazione che si macchiano di corruzione o di spreco di denaro pubblico. Per questo, attraverso l’esercizio della memoria, dobbiamo e possiamo mantenere vivo l’esempio di chi, facendo il proprio dovere, non ha voltato le spalle, non si è tirato indietro per difendere l’interesse collettivo, anche a costo della propria vita. Un esercizio della memoria che, però, non deve fermarsi al ricordo e alle parole, ma deve essere attivo, deve essere la linea guida delle azioni di chi è chiamato a far rispettare le regole e la legalità, dentro ogni istituzione, dentro ogni ufficio pubblico. Senza mai chinare la schiena alla paura, all’omertà o alla convenienza.

Giovanni Dato -ilmegafono.org